Che un condannato scriva al suo giudice, con cui ha condiviso le lunghe ore della fase istruttoria, è di per sé inconcepibile, oltre che impossibile, ma se la lettera indirizzata al magistrato è un quadro della propria esistenza, pressoché a uso e consumo di chi la stila, ecco la cosa è più plausibile e se l’autore è poi Georges Simenon la questione si fa interessante, perché nessuno come lui è bravo nello scendere nella psiche umana, mettendone a nudo tutte le caratteristiche più nascoste. Non c’è romanzo in cui il narratore belga non pratichi questa indagine, che finisce con l’essere un’indagine nell’indagine di quella basata su fatti, circostanze, indizi e testimonianze che svolge normalmente la polizia. Lettera al mio giudice sconvolge un po’ il modus operandi dell’autore, per più di un elemento. Infatti il romanzo inizia con una lettera che un condannato per omicidio scrive dal carcere al giudice istruttore, per poi diventare una vera e propria narrazione da parte di lui stesso, il che lascia intendere che egli compia una sorta di autoanalisi; inoltre, se normalmente, sia che si tratti di giallo che di noir, c’è un omicidio e poi la ricerca dell’assassino o i comportamenti di questi per sfuggire alla cattura, qui i giochi sono già stati fatti, e direi che si inizia da quella che è comunemente la fine per arrivare poi al delitto. Si tratta quindi di una scommessa stilistica, d’impostazione e di struttura, a dir poco ambiziosa, la cui realizzazione non è per nulla facile, anche per un maestro come Simenon, e in effetti, a mio avviso, l’obiettivo non viene raggiunto del tutto, anche perché se l’impianto sta in piedi, inevitabilmente viene a essere gravato prima dalla forma a cui é ricorso, la lettera, e poi dalla narrazione in prima persona. Oh, intendiamoci, non è che la grande capacità di introspezione venga meno, che diventi carente quel notevole valore aggiunto di saper così ben delineare l’ambiente e l’atmosfera, di cogliere nei confronti dei personaggi quelle loro debolezze che possono muovere a un sincero senso di pietà. Quello che invece finisce con l’essere un elemento, se non negativo, almeno non positivo, è l’inevitabile grevità del testo, il suo ritmo per lo più lento imposto dalla scelta stilistica, e questo tuttavia senza nulla togliere alla valenza dell’opera, ragguardevole senz’altro, ma non di livello così elevato come in altri casi, perché un conto è una scrittura profonda, e ciò nonostante capace di appagare senza gravare più di tanto sulla gradevolezza, altro conto invece è non rendere facile e piacevole la lettura. Peraltro sono presenti alcune incongruenze, nel senso che non si riesce ben a comprendere come sia possibile che la vita di un uomo coniugato e tutto sommato semplice, anzi quasi umile, venga sconvolta fino al parossismo dall’incontro, e relativa relazione, con una giovane donna; da ultimo mi spiace dover rilevare come nell’ ultima trentina di pagine ci sia un’improvvisa accelerazione del ritmo del rapporto amoroso, di difficile comprensione rispetto all’andamento senz’altro più quieto che fino a quel momento lo caratterizzava. Piccolezze, mi si potrebbe obiettare, ma da uno come Simenon che ha scritto così tanti capolavori è lecito attendersi un prodotto perfettamente confezionato. Ciò non toglie che il libro possa essere meritevole di lettura, se non altro per la fine analisi psicologica dei due personaggi, la cui fragilità è indubbia, tale da poterli definire degli immaturi.
Lettera al mio giudice
«Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei». Così si rivolge il narratore, all’inizio di questo romanzo, al suo giudice – e insieme a ogni lettore. La storia che segue è una storia di amore e di morte, carica d’intensità, esaltazione e angoscia. È la storia di un uomo che si sente trascinato a uccidere una donna perché la ama troppo. Lo sfondo: stazioni gocciolanti di pioggia, bar, piccoli alberghi della provincia. Agente provocatore: il caso, che fa apparire una ragazza minuta, pallida, arrampicata su alti tacchi, nella vita di un medico, uomo «senza ombra», la cui esistenza, così normale, si avvicina sempre più al confine con l’inesistenza. E quella donna è l’ombra stessa, qualcosa di oscuro e lancinante al di là di ogni ragione, che conduce tranquillamente alla morte. Queste le ultime parole della confessione: «Siamo arrivati fin dove abbiamo potuto. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo voluto l’amore nella sua totalità. Addio, signor giudice».
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Autore:
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Collana:
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Edizione:11
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Anno edizione:1990
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Renzo Montagnoli 26 ottobre 2015
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