Lettera al mio giudice

Narra il delitto dal punto di vista del colpevole, rovesciato rispetto quello che è il sentire comune. Indaga i lati più oscuri dello stato d'animo malato di chi ha commesso un'atrocità, ma la vive come una liberazione

Simenon riesce in ogni suo libro a scavare nella profondità dell'animo umano, a portare a galla sensazioni ed emozioni recondite, che spesso vengono represse per vergogna. Questo libro effettua un percorso inverso rispetto alla consueta narrazione di Simenon, partendo da un'ammissione di colpa e andando a scandagliare tutte le ragioni delle azioni del protagonista. È una autoanalisi profonda che rispetta a pieno la tradizione simenoniana. Tra gli imperdibili della sua collezione.

Il libro è molto più di una lettera, è un'autoanalisi che il Dottor Alavoine compie su sé stesso e sul proprio vissuto, rivolgendosi al Giudice istruttore del suo processo, non per discolparsi, ma per spiegare le ragioni del suo agito. Il flusso di coscienza passa dall'infanzia, alla giovinezza e si dipana fino al giorno del delitto per cui il protagonista sta scontando la sua pena: il Dottor Alavoine non è mai stato il fautore della sua storia, ma piuttosto uno spettatore delle scelte che altri hanno preso per lui (l'essere medico, marito e padre); un "uomo senza ombra", come lui stesso si definisce. Tutto ciò emerge prepotentemente nel momento in cui nella vita del protagonista compare Martine che, segnata da un passato difficile, finisce con l'essere il bersaglio di un sentimento, forse autentico, ma nuovo e incontrollabile per il Dottor Alavoine e che finirà con il segnare indelebilmente le vite di entrambi. Il miglior Simenon che abbia letto finora. Un viaggio nei pensieri più oscuri della psiche umana, condotta con magistrale incisività e che, di fatto, risulta a tratti attuale.