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Al momento dell'Unità, al termine delle lotte del Risorgimento, lo Stato nuovo si modella, almeno in apparenza, su una società che sembra aver superato ogni divisione di ceto. Dal punto di vista legale, non vi sono privilegi, non vi sono ordini, non vi sono ranghi. E tuttavia permangono profonde le disuguaglianze tra i cittadini. Disuguaglianze di ricchezza, di cultura, di potere politico. Ma come dare visibilità e spessore a queste differenze? La storia delle borghesie italiane di età liberale è segnata da incessanti strategie della distinzione, che solcano il campo sociale in tutte le direzioni: distinguono gli universi borghesi dal mondo mitizzato o temuto delle classi popolari; ma, contemporaneamente, dividono quegli stessi universi in un vertiginoso caleidoscopio di appartenenze territoriali, socio-professionali, ideologiche, politiche. Localismo, particolarismo, pratiche clientelari sembrano esserne i tratti dominanti. Gli interessi e gli orientamenti dei proprietari, dei professionisti o degli industriali sono diversissimi, talvolta conflittuali, spesso addirittura inconciliabili. E nondimeno, c'è qualcosa che dà coerenza alle varie appartenenze. Una serie di miti, simboli, convinzioni ideologiche che si stratificano lentamente e - piuttosto inaspettatamente - si incontrano (ai primi del Novecento) col termine borghesia. Da questi materiali nasce una rinnovata identità socio-politica della borghesia italiana. Negli anni drammatici del primo dopoguerra, il complesso insieme di immagini ideali, da cui essa trae vitalità e forza, si incontrerà e si confonderà con la retorica politica del radicalismo fascista.
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