(Valdicastello, Lucca, 1835 - Bologna 1907) poeta italiano. La vita e le opere Suo padre, carbonaro, era medico condotto e Giosue trascorse la fanciullezza in Maremma, prima a Bolgheri e poi a Castagneto. Nel 1849 la famiglia si stabilì a Firenze, dove C. frequentò le scuole degli scolopi; cominciava intanto a delinearsi la sua formazione umanistica attraverso una serie sterminata di letture: tra i latini Orazio, Virgilio, Ovidio; tra i moderni Alfieri, Foscolo, Leopardi; e in tale linea s’inseriva anche, precoce, l’avversione per Manzoni e il manzonismo. Nel 1853 entrò alla Scuola normale di Pisa, dove si laureò nel 1856 con una dissertazione sulla poesia cavalleresca. Passò quindi a insegnare retorica alla scuola secondaria di San Miniato al Tedesco: un periodo assai intenso della sua vita (consegnato poi alle pagine autobiografiche delle «Risorse» di San Miniato, 1863), nel corso del quale andò precisando una poetica antiromantica e fondò, assieme agli amici G. Chiarini, G.T. Gargani e O. Targioni Tozzetti, la brigata degli «Amici pedanti», che dell’avversione ai moduli letterari del romanticismo aveva fatto la propria bandiera. Caduto in sospetto alla polizia per le sue idee politiche, fu allontanato dall’insegnamento e per tre anni visse a Firenze, dando lezioni private e lavorando per l’editore Barbera. Tra il 1857 e il 1858 fu colpito da due gravi lutti: prima il suicidio del fratello Dante, poi la morte del padre. Nel 1859 si sposò con Elvira Menicucci, dalla quale ebbe quattro figli. Dopo un anno di latino e greco al liceo di Pistoia, nell’agosto 1860 il ministro Mamiani lo chiamò a insegnare eloquenza all’università di Bologna, dove visse per tutto il resto della sua esistenza, svolgendo un’imponente attività di erudito e di critico letterario. Incrementava, nel frattempo, la sua conoscenza delle letterature straniere, tedesca e francese in particolare, e conferiva un’impronta sempre più decisamente laica alla sua poesia, mentre le sue convinzioni politiche si orientavano in senso repubblicano: del 1863 è l’Inno a Satana, del 1868 Levia gravia, ma in quegli anni andava scrivendo molti altri componimenti poi inclusi nei Giambi ed epodi (ed. definitiva 1882), la sua raccolta più dichiaratamente impegnata nella polemica politica. Risale al 1871 la conoscenza di Carolina Cristofori Piva (la Lidia o Lina delle sue poesie), che divenne presto passione amorosa. Fu in quel periodo che C. consolidò la propria fama di poeta nazionale e di guida della coscienza culturale italiana, attraverso un’ampia produzione poi raccolta in Rime nuove (1861-87) e Odi barbare (1877-89), così chiamate perché il poeta, che aveva tentato di riprodurvi il ritmo della metrica quantitativa dei greci e dei latini, era tuttavia convinto che sarebbero sembrate «barbare» agli orecchi di un greco o di un latino. Continuava nel frattempo l’insegnamento universitario, e alla sua scuola si formavano uomini come G. Pascoli, S. Ferrari e, più tardi, R. Serra, A. Panzini e M. Valgimigli. Nel 1878, dopo una visita dei sovrani a Bologna, C. compose l’ode Alla Regina d’Italia, che offrì pretesto agli avversari per accusarlo di essersi convertito con disinvoltura alla monarchia; in realtà questa «conversione» fu dovuta in parte alla disponibilità letteraria del poeta rapsodo e in parte alla mutata politica della massoneria italiana (alla quale egli aveva aderito nel 1860) nei confronti della monarchia. Nominato senatore nel 1890, negli anni seguenti s’indusse a sostenere la politica di Crispi. Allo stesso 1890 risale l’amicizia sentimentale con Annie Vivanti. Del 1899 è la sua ultima raccolta di versi, Rime e ritmi; del 1904 l’abbandono dell’insegnamento, per motivi di salute; del 1906 il conferimento del Nobel per la letteratura. C. morì il 16 febbraio 1907.Temi e sviluppi della poesia carducciana A torto s’individuerebbe nell’antiromanticismo il tratto saliente dell’opera carducciana: anzi certe sue posizioni classiciste, combinandosi con atteggiamenti esplicitamente passionali, sono apparse a taluno proprio come l’indizio d’una sua collocazione nell’ambito del tardo romanticismo, con quel suo ideale d’una poesia bilanciata tra realismo borghese e lezione dei classici. Arbitro della situazione letteraria italiana, C. assegnò all’attività poetica responsabilità decisive, oltre che sul piano del linguaggio e della letteratura, su quello della vita civile: donde la sua svalutazione della prosa e della narrativa in specie, e la sua insistenza sul ruolo di vate che compete al poeta. Da tale rapsodismo discende anche una disposizione sperimentalistica di fronte al fatto poetico, che lo conduce a produrre contemporaneamente versi di accento e di significato diversissimo: il 1881, per esempio, si apre con una «barbara», Nevicata, sulla quale si è insistito come su uno dei momenti di maggiore raccoglimento dell’anima carducciana; ma segue immediatamente la «rima» A Vittore Hugo, con la sua ostentazione di poesia vaticinante. Negli anni 1871-78 è possibile indicare il periodo di crisi e, insieme, di più feconda maturazione dell’arte carducciana: l’amore per la Piva e la morte del figlioletto Dante (1875) spinsero il poeta a una più intensa ricerca interiore, che trovò anche un appoggio culturale in nuove esperienze di poesia, nella lettura di Goethe, Schiller, Platen, Baudelaire, Gautier, Shelley. La tematica di C., arricchitasi di nuovi stimoli umani e letterari, dette allora i suoi risultati più originali in tre direzioni: la rievocazione storica, che coincide con la nostalgia per le età eroiche del passato, in particolare per quella romana (il ciclo delle poesie «romane» delle Odi barbare: Nell’annuale della fondazione di Roma, Dinanzi alle terme di Caracalla, Alla Vittoria, Alle fonti del Clitumno) e per quella medievale-comunale (Il comune rustico, Faida di comune, Il parlamento); la poesia di memoria che rievoca una giovinezza energica e appassionata (Idillio maremmano, Davanti San Guido, Nostalgia, San Martino); il senso della morte, intesa come privazione di forza e di luce (Funere mersit acerbo, Pianto antico).Già nelle ultime Odi barbare e poi, in modo più vistoso, in molte liriche di Rime e ritmi, l’ispirazione più genuina veniva offuscata o sostituita dall’oratoria celebrativa. Questo declino coincideva con le posizioni del poeta «vate» della nazione, integrato ormai con la politica di Crispi e plaudente al regime monarchico. Tuttavia sarebbe troppo semplicistica l’equazione «involuzione politica-involuzione poetica», in primo luogo perché nell’ultimo C., accanto alle manifestazioni più superficiali e caduche, s’incontrano accenti nuovi di lirismo raccolto e sbigottito (il paesaggio tutto interiore della già citata Nevicata, quello luminoso, ma composto, di Sogno d’estate; i piccoli quadri a tenui colori di In una villa, di Mezzogiorno alpino, dell’Ostessa di Gaby; il misurato fantasticare di Courmayeur; la grazia tra ilare e malinconica di Ad Annie ecc.); in secondo luogo perché il rischio della retorica era implicito anche nei primi avvii della poetica carducciana. Ed è significativo che i cedimenti più gravi si verifichino in alcune poesie «storiche» delle Odi barbare e di Rime e ritmi: proprio perché C. non fu mai, anche nel periodo più felice, un vero poeta della storia in senso moderno; fu semmai un pittore di paesaggi storici, icastici, coloriti, ma privi del senso vichiano che aveva animato le grandi rievocazioni foscoliane, o del senso religioso e provvidenziale che aveva ispirato tutta la poesia storica di Manzoni. Né certo egli poteva rimediare alla sua insensibilità per il ritmo profondo della storia con l’astratta dottrina della «nemesi» che colpisce inesorabilmente i discendenti dei tiranni, specialmente gli incolpevoli (Per la morte di Napoleone Eugenio, Miramar): una forza naturale che interviene a ristabilire un ordine di cose, arbitrariamente infranto con la violenza e l’irrazionalità. A parte singoli risultati, l’esperienza carducciana restava comunque isolata dalle correnti più vive della letteratura contemporanea, avviate decisamente verso soluzioni naturalistiche o decadenti.Un particolare interesse suscita, oggi, la vasta attività critica di C.: vista un tempo come documento tipico della scuola storica positivista, essa è ora valorizzata per quell’attenzione ai valori formali dei testi che la inserisce nel filone della critica stilistica del Novecento. Esemplari, da questo punto di vista, oltre ai commenti a Petrarca e a Poliziano, gli studi complessivi su Parini minore (1903) e Parini maggiore (1907). Allo stesso modo, si è riconosciuta la grandezza di C. prosatore ed epistolografo (22 voll. di Lettere nell’edizione nazionale delle Opere), per quel temperamento estroso e umorale del suo dettato, che prelude al gusto novecentesco.