Indice
Un brano dell'intervista di Wuz
Wuz: Da cosa nasce l’idea di raccogliere gli ultimi pensieri dei suicidi in questa sorta di epitaffio collettivo?
Gabriele Tinti: Last words è stato il naturale sviluppo dal mio lavoro sulla morte, come prosecuzione delle mie poesie con a tema i pugili e le loro sconfitte, spesso i loro suicidi, talvolta i loro omicidi. Tuttavia mentre nelle mie poesie sulla boxe, pur trattando di fatti reali, c’è la mia scrittura, questo libro è una vera e propria raccolta di found poems anche se, a dispetto della tradizione della poesia concettuale, qui non c'è semplice trasposizione di un discorso, di un articolo di giornale da una sfera linguistica all'altra, non ci sono frammenti, puzzles, composizioni di oggetti o situazioni quotidiane riscattate dalla loro banalità, accostati tra loro per suscitare déjà vu semantici. Manca qui il compiacimento, la “leggerezza” del puro gioco letterario. Qui il disegno di regia è crudo, esistenziale, emotivo, drammatico: restituire il lirismo degli istanti ultimi.
Wuz: Potrebbe sembrare, ad una lettura superficiale, che quest’opera rappresenti un elogio della morte. Ma io ci ho visto un elogio della libertà più alta che abbiamo: quello di disporre della nostra vita fino all’ultimo istante. Cosa ne pensa?
Gabriele Tinti: È così. “Tutto, in fondo, si riduce alla paura della morte”. Tutto quel che c'è al mondo di fondamentale è a questa connesso. Ed è per tale ragione che per imparare a vivere si dovrebbe prima “imparare a morire” ci avvertiva Nietzsche. Questa saggezza ci proviene dal mondo antico che bene comprendeva come la morte, con la sua gravità e severità, ci appartiene “fin dal nostro primo concepimento”. In proximo mors est, la morte è nelle vicinanze, è immanente alla vita, ammoniva Seneca. “Se non volete lottare, è possibile fuggire”. Questa è la nostra grande libertà, l’unica sapienza possibile.