Le prime frasi
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LA DEPOSIZIONE DEL FLAUTISTA
Una balaustra nera divideva la stanza in due. Dal lato riservato al pubblico, contro la parete imbiancata a calce e coperta di avvisi e ordinanze, c'era solo una panca senza schienale, anch'essa verniciata di nero. Dalla parte opposta, banchi, calami, scaffali stipati di registri, neri anche quelli: insomma, una scena in bianco e nero. Ritto su una lastra di lamiera, troneggiava una stufa di ghisa come oggi se ne vedono solo nelle stazioncine di provincia, col tubo che saliva verso il soffitto per poi piegarsi a gomito attraversando tutta la stanza prima di scomparire nel muro.
L'agente dal viso paffuto, che si era sbottonato l'uniforme e cercava di dormire, si chiamava Lecœur.
L'orologio con la cornice nera segnava l'una e venticinque. Ogni tanto l'unica lampada a gas accesa mandava un crepitio, e la stufa, senza ragione apparente, si metteva a borbottare.
Fuori, la quiete notturna era turbata a tratti dagli scoppi sempre più rari dei petardi, dalla canzone di un ubriaco, o dal passaggio di una vettura sulla strada in discesa.
Davanti al banco di sinistra, il segretario del commissariato del quartiere Saint-Georges muoveva le labbra come uno scolaro, chino su un libretto di recente pubblicazione:
Corso di segnalazione descrittiva (ritratto parlato) a uso degli ufficiali e degli ispettori di polizia.
Sul risvolto, una mano aveva tracciato a inchiostro violetto, in bella grafia: J. Maigret.
Già tre volte dall'inizio della nottata il giovane segretario si era alzato per attizzare il fuoco nella stufa: quella stufa, di cui avrebbe sempre serbato nostalgia, era la stessa, o quasi, che si sarebbe ritrovato un giorno al Quai des Orfèvres e che in seguito, con l'installazione del riscaldamento centrale nei locali della Polizia giudiziaria, il commissario capo Maigret, comandante della Squadra Speciale, avrebbe ottenuto di conservare nel proprio ufficio.
Era il 15 aprile 1913. La Polizia giudiziaria si chiamava ancora Sûreté. Un monarca straniero era sbarcato quella mattina in pompa magna alla Gare de Longchamp, dove c'era ad accoglierlo il Presidente della Repubblica. Le carrozze d'ordinanza, scortate da guardie repubblicane in alta uniforme, avevano sfilato per l'avenue du Bois e gli Champs-Élysées tra due ali di folla e di bandiere.
C'era stata una serata di gala all'Opéra, fuochi d'artificio, cortei, e il frastuono dei divertimenti popolari cominciava solo ora ad attenuarsi.
Le forze dell'ordine erano spossate. Malgrado tutte le precauzioni, gli arresti preventivi, gli accordi con individui ritenuti pericolosi, fino all'ultimo si era temuta la bomba di un anarchico.
Maigret e l'agente Lecœur erano soli, all'una e mezzo del mattino, al commissariato di polizia del quartiere Saint-Georges, nella tranquilla rue La Rochefoucauld.
Sul marciapiede risuonò un passo affrettato, ed entrambi alzarono la testa. La porta si aprì, e un uomo piuttosto giovane si guardò attorno abbagliato dalla luce a gas.
"Il commissario?" domandò ansimante.
"Sono il suo segretario" disse Maigret, senza alzarsi dalla sedia.
Ancora non sapeva che stava per cominciare la sua prima indagine.
L'uomo era biondo, smilzo, aveva occhi azzurri e carnagione rosea. Indossava un soprabito beige sullo smoking e teneva in mano una bombetta. Ogni tanto, con la mano libera, si tastava il naso tumefatto.
"È stato aggredito da un malvivente?".
"No. Ho cercato di soccorrere una donna che gridava aiuto".
"Per strada?".
"In una villa di rue Chaptal. Farebbe bene a venire subito. Mi hanno sbattuto fuori".
"Chi?".
"Una specie di maggiordomo o di portinaio".
"Non crede che sarebbe meglio cominciare dal principio? Che ci farebbe in rue Chaptal?".
"Tornavo dal lavoro. Mi chiamo Justin Minard. Sono secondo flauto ai Concerts Lamoureux, ma la sera suono alla Brasserie Clichy, in boulevard de Clichy. Abito in rue d'Enghien, proprio davanti al Petit Parisien. Ho girato in rue Ballau, poi, come ogni sera, mi sono avviato per rue Chaptal".