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Concordo appieno con Seneca quando parla di come le avversità della vita diano la possibilità ad un uomo di crescere, fortificarsi e rendersi migliore. Conta anche come si affrontano tali sventure, se come punizioni oppure come prove («le persone perbene si affaticano, si impegnano, si sacrificano spontaneamente. Non è la sorte a costringerli, ma sono loro stessi a seguirla adattando ad essa il proprio passo»). Gli uomini, dice Seneca, che hanno affrontato mille avversità con coraggio ed onore, diventano esempi da imitare, infondono forza nell'anima dei più deboli. Quando però Seneca si mette a scrivere di destino prestabilito, di come sia consolante sapere che è già prestabilito "che cosa godrai e di che soffrirai", beh, lì torno ad essere un po' scettico. Non riesco a crederci (per ora). C'è comunque una coerenza di fondo in tutto questo suo scritto, e sarebbe di grande forza e consolazione credere in questo rapporto tra gli uomini e Dio, è innegabile. Dal punto di vista letterario, lo scritto non mi pare ben strutturato. Ci sono concetti che ritornano qua e là e pezzetti di discorso che potevano essere tralasciati. La scrittura è semplice ed efficace, i concetti base sono espressi in maniera chiara e senza giri di parole. Gli esempi (troppi forse) allietano la lettura.
Vi è mai capitato di chiedervi “ma perché tutte a me?” di fronte all’ennesima disgrazia o difficoltà ingiustificata che è piombata su di voi nella vostra vita? Ecco, Seneca prova a rispondervi con questo trattato. In particolare, il filosofo sembra chiedersi: come mai in presenza di un ordine provvidenziale giusto e perfetto che regola questo mondo, anche le persone buone siano affette da sventure? Qual è la loro funzione? Stabilito che l’ordine perfetto dell’universo non può essere casuale ma regolato da una ragione divina, Seneca ci dice che la condizione umana di ciascuno di noi è regolata dalla Fortuna (intesa dai Romani come la sorte o il destino): chi volesse inutilmente sottrarsi al proprio destino, accecato da desideri e passioni contrarie al suo avverarsi, è uno stolto; è invece da saggio seguirlo e sostenerlo. I mali che possono quindi capitare alle persone buone, come le sventure, le calamità, gli avvenimenti dolorosi, sono per loro sia come una palestra, un rafforzamento delle loro virtù, sia come un'occasione per dimostrare e manifestare a tutti gli altri le proprie virtù, che altrimenti rimarrebbero inespresse. Perciò la persona buona, anziché cercare di respingere i mali che gli capitano, li deve accettare volentieri.
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