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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2010
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2,5⭐️⭐️/5 Faticoso. Un linguaggio inspiegabilmente tendente all’aulico, a tratti incomprensibile. Peccato perché alcuni racconti sono stati molto piacevoli.
Questa raccolta di racconti contiene delle perle assolute di stile e amara ironia
Per chi è abituato a lasciarsi andare tra i flutti degli arabeschi immaginativi di Mari, questo affacciarsi alle sue personalissime nevrosi infantili è un rendez-vous dal suono intimo e familiare. Una scrittura densa, colta, golosa, un vocabolario straordinariamente ricco, quello con cui Mari asservisce la lingua ai propri personalissimi scopi, tirandola a dismisura e guardando con gli occhi sagaci dell’esperto il mai raggiunto punto di lacerazione. La traiettoria lungo la quale ci si muove nella lettura degli undici racconti è fatta dei mondi sepolti della paura di bambino, delle complicate relazioni personali e familiari – che hanno sempre un retrogusto di colpa e inettitudine –, di ossessioni puerili, nutrite da appagamenti osceni e da un senso atroce di inadempimento, di mostri e prodigi, i grumi irrisolti del mitico evo dell’infanzia di chi scava lungo la memoria stratificata dando egregiamente forma all’informe. Lacrymae rerum, gli oggetti riemergono alla stregua di reliquie di una dimensione che ci è appartenuta e che ora, arroccati in una disincantata maturità, ci appare irraggiungibile, un tempo sepolto e rimosso che torna sotto forma di fervida immaginazione, dolore privato di un paradiso perduto. Ciò che viene riesumato dà vita all’iconografia di un’età dell’oro, ove la letteratura diviene occasione di regressione. “Ciò che hai amato anche solo un mattino, tenertelo stretto fino alla morte”, il monito affidato al lettore, un filo di Arianna per non perderci nella ricerca archeologica lungo la poesia della memoria dello scrittore in un libro che lascia addosso il pulsare delle tempie, eco del violento pianto infantile, ormai lenito, accompagnato dal sapore ferroso della sanguinosa ferita mai rimarginata.
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