Mona ha una quarantina d'anni, un marito un po' apatico, un figlio adolescente in piena crisi e fa l'infermiera. È caparbia e intraprendente, e forse appartiene alla minoranza ebraica di un paese musulmano volutamente taciuto: queste caratteristiche fanno di lei un elemento "socialmente pericoloso". Un giorno arriva in ospedale un giovane gravemente ferito, poco più grande di suo figlio ma che dimostra almeno vent'anni di più. Mona non farà altro che parlargli nonostante il ragazzo non sembri nelle condizioni di comprenderla. Eppure non è così: la sente, e quando finalmente si sveglia la cerca per chiederle altre "parole". Adam - questo il suo nome, o forse no - si aggrappa alla vita, vuole vivere disperatamente: la voce di Mona, quei racconti di una vita a volte non tanto diversa dalla propria hanno costituito per lui la luce nel buio. Ma la morte che aleggia in quella stanza lo disgusta, sembra preannunciarne sempre altre. E questo gli fa rabbia nei confronti di quegli altri occupanti che sembrano già cadaveri, o urlano, hanno visioni tremende, ricordi dal fronte. E lo stesso sentimento di rabbia appartiene a Mona. L'animo materno e bonario di lei si trasforma in quello ferino di chi vede l'oggetto delle proprie speranze svanire. È allontanata dal reparto ma appena può sta lì e si dedica ad Adam. Il clima politico nel suo paese sta letteralmente precipitando, mentre il destino del giovane si fa sempre più cupo, fino a che un giorno Mona non lo porterà fuori in carrozzella, con la falsa promessa di riaccompagnarlo fino al suo villaggio tra le montagne. Un libro che appassiona il lettore bendisposto.
Mona
Non sono lunghi i libri di Bianca Bellová, ma ogni volta ti sembra di aver letto un libro di mille pagine, per tutta la vita che hai visto scorrere nel mezzo. È un aspetto che mi ha colpita enormemente da lettrice, e ancora più da traduttrice, perché quando traduci senti il peso di ogni parola sulla pelle. La peculiare, profondissima, forma d’amore tra Mona, infermiera in un ospedale travolto dalla guerra, e Adam, il giovane soldato che arriva dal fronte con una grave ferita alla gamba, fa qui da collante a grandi temi umani e sociali. La violenza con cui la dittatura e le guerre irrompono nella vita della collettività e del singolo, la condizione della donna, l’infanzia rubata dalla crudeltà degli adulti. Ma anche, più semplicemente, i rapporti che sbiadiscono, le distanze che aumentano, l’adolescenza, col suo carico di strafottenza e apatia che a volte si porta dietro. Nel buio e nella devastazione della guerra, in un ospedale infestato dalla vegetazione della giungla e dalle urla dei pazienti, Mona e Adam trovano un’ancora di salvezza: la parola. E sono proprio le parole a diventare protagoniste. Quelle che, incise con una calligrafia segreta sulle pareti terrose di uno scantinato-rifugio, salvano Mona bambina dal senso di perdita e solitudine, e quelle che, annotate su un quaderno nascosto sotto il materasso, salvano Mona adolescente dalla desolazione di un collegio-prigione. E infine quelle raccontate al capezzale di Adam, che salvano Mona adulta dalla resa e dall’apatia, restituendole la consapevolezza della donna che è. Con il racconto che ripercorre la storia delle loro vite, i protagonisti si prendono cura di loro stessi e dell’altro. Parole salvifiche. Quelle che Bianca sa scolpire con tanta precisione e premura. Tradurre Bianca Bellová, ormai lo so, è come farsi prendere per mano, con fiducia. Perché lei non si perde mai, va avanti a intagliare fino a condurti alla fine della sua storia. E alla fine, ormai so anche questo, troverò sempre uno spiraglio di luce. Laura Angeloni
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LuigiAmendola 02 settembre 2024Mona, Mun e Adam
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