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Ho finito di leggere "Napoli, via cappella vecchia, 31" già da un po' ma è uno di quei libri che ho dovuto far decantare dentro per esprimere la mia opinione con le parole più adatte. Non appartengo alla comunità ebraica, ma ogni storia narrata l'ho sentita sulla pelle, che fosse ambientata negli anni '30 o al giorno d'oggi, negli anni '60 o appena qualche decennio fa. Il "bello scrivere" dell'autore mi ha commosso e fatto sorridere, ho ritrovato umanità, sarcasmo, ironia e saggezza di quel ragazzo adesso uomo che ha tanto visto, ascoltato, provato. Con questi racconti, storie intime, ci ha reso partecipi di una piccola parte delle vite che ha incontrato ed è stato come osservarle mentre accadevano, disseminando il testo di riflessioni dense che ho sottolineato. "Dolore", "Particolari" mi hanno particolarmente colpito, una storia di distanza dalle proprie origini, ed una sul ritrovarsi in quelle stesse origini, nel sentire l'appartenenza dentro, abbracciarla e viverla fino in fondo. Ho amato e mi ha commosso "Havdalà", una storia che ho sfiorato senza comprenderla appieno al'epoca, una storia di determinazione e di amore familiare in cui ho ritrovato luoghi, percorsi che erano anche i miei. Il libro si apre con una storia di allontanamento dalle proprie radici e si chiude con una storia di speranza, per la comunità ebraica di Napoli e l'umanità intera, ambientata nel primo dopoguerra. La stessa speranza che ci occorrerebbe oggi. Al termine del libro però ciò che mi ha fatto riflettere non è stata la speranza, ma il coraggio. Il coraggio di essere ebrei, ieri ma ancora oggi, di rivendicare con orgoglio le proprie origini, la propria tradizione e religione. Basta poi andare un po' oltre per rendersi conto che è una virtù che dovrebbe appartenere a tutti, ebrei o meno. Il coraggio di essere se stessi ogni giorno.
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