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I “medicamenta” di Patrizia Valduga non dispensano né l’amore né l’oblio né la morte: perché la tragedia di questo linguaggio poetico non si risolve né si placa: non c’è più spazio davanti; bisogna tornare indietro e lavorare sui rottami. Questo linguaggio fa come lo scorpione che si uccide col proprio aculeo quando è prigioniero del fuoco. Qui siamo a un limite estremo di reclusione; tra questi huis clos si muore per asfissia: il linguaggio allora si uccide come antico e, risorgendo dalla propria spoglia, diventa moderno; e poi, da moderno, siferisce ancora e ritorna antico(…)E’ tale sovraccarico di tensione a rendere potenti i medicamentosi veleni. Certo, non ho memoria, tra i moderni, di un poeta che abbia allacciato così strettamente la propria urgenza di esistere con l’urgenza di dire e di dirsi”. (Luigi Baldacci)
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