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Anno edizione: 2022
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L'alveare è la città di Madrid. Una folla stanca e desolata dopo la Guerra Civile: tante storie di fame, paura, invidia raccontate con vivace ironia dal Premio Nobel 1989.
Popola l’alveare una folla di gente qualunque, che non ha perso la guerra ma che neppure l’ha vinta; gente che siede trasandata sulle solitarie panchine dei giardini pubblici, che vive nei falansteri condominiali privi di riscaldamento; gente che affolla i caffè delle vie del centro per stare un po’ al caldo, per confortarsi con un bicchiere e una sigaretta arrotolata, per scambiare quattro chiacchere con l’amico, con la fidanzata, con l’occasionale vicino; gente diversa, ciascuno con la propria storia: vedove, usurai, studenti falliti, serve, poliziotti, camerieri, bottegai, scrocconi, modesti impiegati. E, ancora disoccupati, magnaccia, prostitute e ragazze di famiglia che frequentano le case d’appuntamento per concedersi qualche piccolo lusso, per arrotondare l’esiguo salario. Emerge, in tutta la sua desolazione, uno squallido quotidiano, fatto di discorsi banali, di invidie meschine, di pettegolezzi, ma anche di paure, di dolori, di profonde angosce esistenziali. L’alveare è una città senza scopi e senza ideali, che vive alla giornata, priva di speranza e di voglia di sperare. Dove chi ha la fortuna di avere un impiego non lavora per quel futuro, per quella ricostruzione che si direbbe auspicabile dopo gli orrori della guerra, ma solo per sbarcare il lunario. Madrid, l’alveare: descritta con bonaria ironia, persino con sottile umorismo, con un linguaggio vivace, libero da schemi letterari, ricco di forme gergali, il linguaggio parlato per le strade e nei bar della Madrid del 1942.
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