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Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2017
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Scrittura avvincente e scorrevole.
Arrivo tardi a conoscere questo nuovo (per me) scrittore. L’opera prima con cui Aravind Adiga ha vinto il Booker Prize è, infatti, del 2008. Adiga, attraverso la forma epistolare, non nuova ma relativamente originale per un romanzo, trova modo di raccontare “la sua India” o perlomeno quella parte di India che lui intende denunciare. Dissacrante verso i miti della sua terra - Gandhi, il Gange, le divinità - crudo nella descrizione delle condizioni disumane in cui vivono milioni di suoi concittadini rinchiusi in una metaforica gabbia - la Stia dei polli - cruento nel raccontare la scalata sociale cui il protagonista ambisce, Adiga tratteggia un paese che sembra l’anticamera dell’inferno. Il protagonista infatti, Munna Balram Halway, “la tigre bianca”, racconta la sua storia attraverso sette lettere che invia a Wen Jiabao, (reale primo ministro cinese dal 2003 al 2013) che sta per recarsi in India per capire i motivi del boom economico di quel paese. Balram è uno dei milioni di indiani poverissimi che deve lasciare la scuola, nonostante indubbie qualità, per aiutare la famiglia. Ma grazie ad una ferrea volontà di uscire da quella “stia” riesce a procurarsi un ambitissimo lavoro di autista alle dipendenze di un imprenditore. Ma l’ambizione è forte e non esita ad assassinare il suo stesso datore di lavoro, cui pure è molto legato, per proiettarsi sempre più in alto. Le lettere che scrive a Jiabao sono il mezzo che Adiga utilizza per denunciare una società priva di scrupoli, in cui impera una corruzione smodata, che non esita a ricorrere ai crimini più efferati per raggiungere ricchezza e affermazione sociale. Proprio mutuando i sistemi del suo datore di lavoro e della sua famiglia Balram diventa, a sua volta, un ricco e affermato imprenditore. Un libro che vale la pena di essere letto. Certo non un capolavoro ma un romanzo avvolgente che si legge agevolmente.
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