Personaggi di fantasia mai furono più concreti. Ho peregrinato per le strade della città insieme a Rita, ammirando attraverso i suoi occhi Caravaggio e condividendone i pensieri, in classe con lei durante la lezione sul trittico di Bosh. Ho avvertito il disagio di Lorenzo nel desiderare e nello stesso tempo respingere ciò che è a lui avulso per natura. Ho davanti agli occhi Rosaria e la sua vita miserabile, convinta di essere carnefice, ma in realtà vittima, soprattutto di se stessa. Avrei voluto stringere il piccolo Nicola in un caldo abbraccio che lo facesse sentire meno indifeso. E Luisa...concreta, viva in carne e ossa... Mi ha ricordato la mia nonna...incapace nell'esprimere tutto il suo amore di mamma, forse proprio perché una mamma lei non l'ebbe mai... Cristoforo mi è rimasto più lontano. Un padre così "materno", così semplice, ma al contempo colto abbastanza da raccontare dei pianeti e dei loro nomi al figlioletto, un uomo di sani principi e integerrimo, inclemente solo con se stesso, che accetta le sue disgrazie fino anche a ritenerle giuste...no, non riesco proprio a immaginarlo vero. Un essere così pieno di virtù, di umano non ha molto. Scena del racconto e al tempo stesso personaggio più che presente anch'essa, una Napoli che per questioni anagrafiche non conosco, ma di cui sono figlia, "sporca" e misera così come probabilmente la immagina chi non ci è mai stato, così come sicuramente era prima del 1992, prima del G7, prima dei turisti, prima del tutti per strada a qualunque ora del giorno e della notte, prima che imparassi a viverla, così diversa da com'è oggi. Ma nel tempo resta immutabile il sentimento di amore e odio che lega ad essa chiunque ci sia nato, che impedisce a chi come me la respira di andar via e a chi come l'autrice l'ha lasciata di tornare.
Sette opere di misericordia
Napoli, giugno 1981. La casa è nel cimitero della città. Una città che è a stento in piedi, piena di puntelli, intelaiata di tubi Innocenti aggrappati al tufo, di palazzi vacillanti e inabitati dove l’oscurità e l’umido la fanno da padroni. Cristoforo Imparato fa il custode del cimitero. Il vetro al posto dell’occhio che una scheggia di granata si è portato via, non è stato sempre un camposantiere. Impiegato in una tipografia, era riuscito ad avere persino un paio di stanzucce a Materdei, un quartiere al centro della città. Ma poi, fallita la tipografia, l’esistenza sua, e di Luisa, Rita e Nicola, la moglie e i figli, si è arrevutata, come dice lui. Cosí, Cristoforo ha scavato un fosso nel dispiacere tumulandoci qualsiasi sconforto subíto e inflitto. A casa Imparato trovano un giorno asilo Rosaria, una ragazza amica di Rita che, rimasta incinta, non sa se ammantare di menzogna il suo sbaglio, e Nino, il giovane dal nome corto, il figlio del compare di nozze di Cristoforo e Luisa, ospite a Napoli prima di trasferirsi in Germania. Nino fa amicizia con Nicola, il bambino di casa, gli chiede le cose sulla luna, vuole guardare col suo telescopio, poi un giorno scompare, lasciando un cardillo e una caiòla per donna Luisa, «per le sue cortesie, e per il disturbo». Che misericordia e castigo siano cosí intrecciati da confondersi è la cruda verità che travolge casa Imparato in quell’estate del 1981, l’estate in cui Alfredino Rampi cade nel pozzo a Vermicino e la salvezza del bambino è invano attesa «come la nascita di un Cristo Redentore». Splendida conferma del talento di Piera Ventre, Sette opere di misericordia è uno dei romanzi piú importanti mai apparsi su un periodo cruciale della nostra storia recente, quello in cui una città – la Napoli post-terremoto – e il paese intero si misurarono con la perdita dell’innocenza.
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Elylibri 06 novembre 2021Romanzo coinvolgente
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