Il signor Palomar a Barcellona
Un mattino d’agosto del 2019, il signor Palomar atterra a Barcellona. Non è una vacanza; è un trasferimento: ha bisogno di un posto nuovo per tornare a essere quello di sempre. Mentre tutti si preparano per scendere, comprese sua moglie e sua figlia, Palomar non si muove. Non ha ancora messo piede sul suolo barcellonese. Con quale dovrà farlo per primo? Sarà meglio il destro o il sinistro per cominciare il viaggio? Dovrà farlo pianificando la mossa successiva oppure lasciandosi trascinare dal caso? Qual è il metodo giusto? Perché andare, osservare e capire è il suo lavoro, fino alle cose più minuscole. Non sa da dove vengono, né dove vanno, ma a lui interessa l’istante in cui raggiungono il suo sguardo, quell’istante in cui, prima che scappino, si possono descrivere e misurare. Come le onde. Ora è una città nuova ad aprirsi davanti agli occhi di Palomar: il cimitero di Montjuïc, Plaça dels Àngels, Eixample, il ponte di Vallcarca, Santa Maria del Mar, l’Arc de Triomf, lo zoo in cui aveva vissuto un «gigante bianco e triste che si chiamava Floquet de Neu», l’ultimo gorilla albino protagonista delle storie che raccontava a sua figlia. E conoscere una città vuol dire conoscerla «da cima a fondo», cioè, letteralmente, «dal cielo al sottosuolo»: le stelle sono importanti come le formiche, e importante è tutto quello che c’è fra loro. D’altronde, Palomar si chiama pur sempre come un famoso osservatorio astronomico. È da lì che nasce il suo lavoro, e quel lavoro Palomar cerca di farlo anche dopo il 13 marzo 2020, il «giorno prima di tutto», il giorno in cui è costretto a chiudersi dentro la sua testa, mentre tutti si chiudono in casa. Ma uscire per fare commissioni durante il lockdown non è passeggiare, e senza andare per strada come si fa a descrivere una città? Poi però ci sono un sacco di cose che si possono osservare, quando non c’è niente da vedere. Il signor Palomar a Barcellona è e non è quello di Italo Calvino. Seguiamo i suoi passi per 12 mesi, 52 settimane di esplorazioni e meraviglia, di misurazioni e incantesimi: la scrittura di Tina Vallès trova un magico punto di equilibrio tra esattezza e poesia, restituendoci un ritratto di rara intensità di un uomo e di una città invisibili.
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