Station Eleven

Vent'anni dopo la Georgia Flu e la drastica riduzione della popolazione mondiale, una compagnia itinerante di musicisti e attori shakespeariani viaggia per il Nord America. Non tutti i superstiti infatti si limitano a cercare di sopravvivere nel mondo post-apocalittico: alcuni non vogliono dimenticare com'erano le cose prima, quindi c'è chi recita Shakespeare, c'è chi costruisce un museo della vecchia civiltà e c'è chi è ossessionato dai primi numeri della sconosciuta graphic novel che dà il titolo al romanzo. «Survival is insufficient», frase presa da Star Trek e adottata come motto dalla Traveling Symphony, riassume il punto del libro. Passata in sordina a causa dello scoppio della Georgia Flu è la morte di un attore, Arthur Leander, avvenuta a causa di un infarto durante la messa in scena di King Lear. È questo l'aspetto che ho trovato più intrigante di Station Eleven: di fronte a una grande tragedia quale un virus mortale che mette in ginocchio l'umanità, l'autrice decide di raccontare le vite più o meno insignificanti di personaggi più o meno legati a una piccola tragedia quale la morte di un attore. Per far questo va avanti e indietro nel tempo e collega i vari personaggi in un modo non sempre immediato che a tratti mi ha ricordato A Visit from the Goon Squad. Se devo trovargli dei difetti, direi il mondo post-apocalittico e la fine. Il mondo post-apocalittico è a tratti semplificato e i personaggi che lo compongono, esclusi quelli coinvolti nella vita di Arthur, non sono caratterizzati quanto gli altri. Per quanto riguarda la fine, invece, sebbene ogni tassello vada al suo posto, nell'insieme mi ha dato l'impressione che mancasse qualcosa — un climax, una ricongiunzione, una risoluzione — in grado di lasciarmi completamente soddisfatto. L'ho trovato un bellissimo incontro fra narrativa non di genere e distopia, anche se è sicuramente il lato umano quello che mi ha colpito di più. Non ho davvero bisogno di scenari post-apocalittici, penso che seguirei Emily St. John Mandel ovunque.