La strada di Wigan Pier
Nel 1936 l'editore Victor Gollancz propone a George Orwell di realizzare un'inchiesta sulle condizioni del proletariato inglese. Orwell accetta l'incarico animato dal proposito di fare i conti con quella classe operaia che non conosceva se non per averla incontrata sui libri di Dickens e London. Parte con pochi bagagli e parecchi stereotipi. Alcuni riuscirà a distruggerli, altri saranno confermati. Viaggia a nord, appoggiandosi a uno scrittore operaio e ad alcuni militanti socialisti. Si infila negli slum, dorme nelle tripperie, scende nelle miniere. Legge statistiche, si fa ospitare nelle case dei minatori, chiede informazioni ai sindacalisti. A volte inciampa in errori madornali, altre volte ha intuizioni brillanti. Con la penna fotografa la neve nera dei quartieri dei lavoratori, le donne che vivono in stanze di pochi metri quadrati piene di pentole e bambini, la birra che ripulisce la bocca dei minatori dalla polvere di carbone. Ovunque vada lo accolgono con una stretta di mano. Ma ogni volta che incontra gli operai le sue origini di piccolo borghese si mettono in mezzo. È il problema della distinzione di classe: come il vetro di un acquario che divide due mondi anche se non si vede. Così, dopo i primi capitoli sulla classe operaia, comincia a scrivere della propria stessa classe e il reportage si trasforma in pamphlet. Il libro viene scritto in tempi rapidi e dato alle stampe nel 1937: diventerà un caso editoriale e alimenterà polemiche sul ruolo degli intellettuali liberal, sulle possibilità di una piccola borghesia radicale, sul rapporto tra classe lavoratrice e sinistra. Ma sarà soprattutto una pietra miliare della saggistica sulla working class inglese e porrà l'opera di Orwell al fianco di capisaldi come La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels e Il popolo dell'abisso di London. Un libro scritto nel Novecento ma capace di risuonare ancora alla perfezione in chi sente, oggi come allora, che un torto fatto a uno è un torto fatto a tutti e tutte. Preferiremmo ovviamente scordarci di loro. Accade con tutti i lavori manuali: ci tengono vivi ma ci dimentichiamo della loro esistenza. Forse più di ogni altro il minatore rappresenta il lavoratore manuale tipico, non solo perché il suo lavoro è tremendo e orribile, ma anche perché è estremamente necessario eppure è così lontano dalla nostra esperienza, così invisibile, per così dire, che potremmo dimenticarlo come ci dimentichiamo del sangue che ci scorre nelle vene.
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