Il valore delle parole. La narrazione sbagliata degli scontri stradali
"Furgone investe madre e figlio." "Auto impazzita entra nello stabilimento balneare." "Ecco la curva maledetta." "Non mi sono accorto di niente." "Il ragazzo è letteralmente volato." Questi sono solo alcuni fra i numerosi esempi del linguaggio usato dai media per descrivere casi di violenza stradale. Parole assurde, che tendono a giustificare chi ha comportamenti sbagliati alla guida, umanizzando le cose e spostando spesso l'attenzione sulle vittime e sulla loro presunta colpa. Per non parlare poi delle pubblicità che ci propongono un contesto del tutto irreale: automobili sempre da sole, città deserte e senza pedoni, semafori, incroci, ciclisti e veicoli parcheggiati. In un recente spot televisivo, quando l'auto trova di fronte a sé un ostacolo, appare all'improvviso un tunnel sotterraneo che le permette di continuare a sfrecciare senza perdere tempo. Il linguaggio e le immagini rafforzano senza dubbio un sistema di mobilità basato su macchine e moto, che esalta il diritto alla velocità dei mezzi e penalizza gli altri utenti della strada. Queste forme di comunicazione sono pericolose perché possono portare le persone, anche inconsapevolmente, ad approvare e giustificare comportamenti che sono invece illegali e che possono uccidere, come ad esempio l'eccesso di velocità e la guida in stato di ebbrezza. Se vogliamo fermare la violenza stradale che ogni anno causa nel mondo un milione e trecentomila vittime – ed è la prima causa di morte fra i giovani – dobbiamo anche cambiare la narrazione che promuove l'uso delle auto e descrive gli scontri stradali chiamandoli incidenti. Partiamo quindi dal non chiamarli così, perché non c'è niente di casuale quando accadono, e iniziamo a usare parole corrette, le più aderenti possibile alla realtà, per raccontare ciò che avviene sulle nostre strade.
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