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Estetizzante? Eh sì, è estetizzante già a partire dagli splendidi titoli di testa tutti giocati su colori che continuamente si mischiano e si perdono. Poi ci sono gli insistiti primi piani degli attori, un’accurata ricostruzioni di interni - sia in una Cina d’anteguerra che pare fuori dal tempo, sia nella più urbana Hong Kong degli anni Cinquanta – e il chiaroscuro fortemente contrastato in cui risaltano i visi e gli oggetti spezzato solo dal biancore della neve della terra del nord. Per non parlare poi dei combattimenti, in cui la violenza è stilizzata in fascinose coreografie che li fanno davvero assomigliare a balletti (già l’idea del coreografo apposito è intrigante come poche) o, infine, della pioggia che batte impietosa nei momenti di confronto più duro e qualche parentela con ‘C’era una volta in America’ ce l’ha – e difatti ecco spuntare il ‘Tema di Deborah’ nella scena dell’addio in una buia strada secondaria. La vendetta di Gong Er si consuma invece sotto la neve in una stazione felliniana e si potrebbe andare avanti ancora, ma – diciamocelo con franchezza – chi se ne frega? Perché l’elenco di cui sopra – che pure potrebbe continuare – è fonte di un vero piacere per gli occhi ma anche per il cervello e il modo migliore per goderne è lasciarsi andare al flusso delle immagini, come ascoltando una sinfonia è inutile star lì a contar le note: è vero che se la scrittura avesse la stessa qualità, lo stesso rigore della parte visiva staremmo a parlare di un capolavoro e non solo di un ottimo film, ma la pellicola regala comunque splendidi momenti. La biografia di Ip Man – maestro di kung-fu il cui allievo migliore e più famoso è Bruce Lee – è stata più volte trattata dal cinema di Cina e dintorni: Wong Kar-Wai, che è stato uno dei primi a pensarci, arriva da buon ultimo a causa, si racconta, di una maniacale cura al montaggio che ha portato via almeno un anno. La sua scelta – suoi anche il soggetto e, seppur in collaborazione, la sceneggiatura – è di raccontare per quadri prendendo pochi momenti significativi e legandoli con didascalie (in cinese anche nella versione italiana e lette da una voce fuoricampo): la scelta del maestro del nord Gong Yutian di fare di Ip Man il suo discepolo al sud, il rapporto dello stesso Ip con la di lui figlia Gong Er, la guerra che sconvolge la vita del protagonista, la sua lenta rinascita da profugo a Hong Kong dove ritrova Gong Er che, dopo aver vendicato il padre, sembra non avere più scopo nella vita. Una narrazione in cui non tutto funziona, con personaggi che appaiono e poi spariscono, ingenerando qualche disorientamento (ho confuso per un bel po’ Ma San con il Rasoio e, comunque, non ho ancora ben chiaro il ruolo di quest’ultimo nell’economia generale della storia), ma comunque un difetto che, dato tutto il resto, si perdona facilmente. Altrettanto succede con un finale un po’ tirato per le lunghe, anche se giustificato ‘teoricamente’, visto che i protagonisti mettono in pratica l’ultimo degli insegnamenti di Gong Yutian, la capacità di guardarsi indietro. Del resto, l’arte marziale vista come una filosofia di vita è un assioma che ben conosciamo, ma, attenzione, se questo è un film sul kung-fu, teorico e pratico, non meno importante è la storia d’amore tra Ip Man e Gong Er. Un rapporto stilizzato anch’esso e puramente platonico, fatto di sguardi e dialoghi asciugati con cura (a volte si ha un po’ l’impressione che tutti quanti parlino per frasi fatte): all’inizio, lui è fedele alla bella moglie e alla famiglia, mentre quando i due si ritrovano lei non ha più niente da dare. Un sentimento impossibile che comunica l’infinita varietà di sfumature e possibilità che possono intercorrere tra un uomo e una donna, una situazione ben diversa da quella presente nel kung-fu dove – come afferma di Ip Man – ‘esistono solo due parole: orizzontale e verticale. Commetti un errore: orizzontale. Sei l'ultimo che resta in piedi e vinci’.
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