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Roy Doliner è un ebreo ortodosso che ha deciso di accattivare i goyim con un sorprendente miscuglio di aneddoti alquanto raffazzonati della storia e, in particolare, della storia dell’arte italiana, un bric-à-brac di dubbie “chicche” sui “segreti della Torà”, manifestazioni di amorevole premura per la salute materiale e spirituale della nazione italiana e appelli alla buona volontà altrui, per quanto riguarda codeste nobili preoccupazioni. Abbiamo a che fare, insomma, con un incrocio tra una specie di Dan Brown con la kippah, una versione arcimboldesca dell’eccellente (sia sempre lodato) Philippe Daverio e, per i tratti di filantropica saggezza da rotocalco, un esimio ariafrittologo alla Paulo Coelho. Titolo – Il disegno segreto – e sottotitolo – Il messaggio della Kabbalah nell’arte d’Italia – svelano sin dal principio la tesi perseguita dall’autore, e posso asserire che tra tali intenti programmatici e l’orchestrazione dei contenuti sviluppati nel libro non ci sono grandi discrepanze o soluzioni di continuità. Il primo grande, increscioso problema è che la tesi proposta e il titolo che la sintetizza sono strampalati, del tutto indifendibili. In effetti, non credo che ci sia stato alcun disegno segreto e, men che meno, che i grandi artisti tirati in ballo da Doliner si siano gioiosamente messi al servizio della trasmissione camuffata di un messaggio cabalistico. La tesi portante è dunque, secondo me, un rigoglioso esemplare di ircocervo fantastorico. La seconda magagna da segnalare riguarda la furbesca ma del tutto immotivata organizzazione del volume: suddiviso in undici capitoli, ognuno intestato ad una sefirà – undici, perché Doliner vi include Da‘at –, il rapporto stabilito, in ogni capitolo, tra la sefirà che dà loro il titolo e gli elementi storico-artistici ivi trattati è altamente discutibile, a dir poco; anzi, mi pare più giusto dirla arbitraria, forzata e cavillosa. Un particolare che ha a che vedere con le credenze proprie di alcune correnti dell’ebraismo, dal piglio non propriamente illuministico, è la tenacia con cui l’autore si attiene – religiosamente, è il caso di dire – «alla consuetudine di proteggere il santo nome divino non scrivendolo mai per esteso o correttamente». E poi esemplifica: «A volte scrivo una k al posto di una h [è quello che fa riguardo a Elohim, che trasforma in Elokim], a volte omettendo [sic] una vocale, come faccio con D-o e Sign-re» (nota a p. 152). Io lo trovo alquanto ridicolo, ma à chacun son goût, e poi ogni credenza sincera – se non lede i sacrosanti diritti umani – va semplicemente rispettata. Parlando di Corto Maltese, l’autore ci svela, a p. 237, che il nome di questo famoso personaggio di Hugo Pratt «rinvia all’enigmatica isola che fu una base dei cavalieri templari». I templari, a Malta? E io che pensavo fossero stati gli ospedalieri... O sono io che sbaglio, o allora è il Doliner che riesce a far più danni di Dan Brown. Perché non manchi proprio nulla al gioco di prestigio montato dall’autore, le pagine finali indugiano pure in un filantropismo-mecenatismo che non può non risultare gradito a tutti gli amanti del patrimonio artistico italiano. In questo ambito, spiccano i suoi accorati appelli alla ricostruzione della «mistica [sic] città di Aquila» (p. 301), conditi con l’autopubblicità del suo personale impegno fattivo (vedi la nota a p. 306). Non ci risparmia neppure questa oligofrenica sfilza di consigli perbenistici e qualunquisti, degni di un Paulo Coelho lanciato a ruota libera in un’affollata conferenza stampa: «Indipendentemente dal fatto che viviate o no in Italia, potete fare la vostra parte per evitare che precipitiamo tutti nell’oscurità: lottando contro la corruzione nella vostra città, aiutando a ripristinare una parte del vostro retaggio storico o culturale; dando vita a un gruppo di appassionati che leggano vere opere letterarie anziché libri da ombrellone; iscriversi [sic] ad associazioni di amici dell’arte, della musica o della danza, o fare qualunque altra cosa che aiuti a sviluppare la nostra gadlut, il nostro più elevato sé spirituale» (pp. 306-7). Avrò senz’altro un cuore di pietra e sarò pure antipaticissimamente scettico, ma non riesco proprio a raccogliere l’invito a «far parte della catena millenaria del movimento di mistici [eccoli di nuovo, e dappertutto, come i funghi in autunno] invisibili e non organizzati [,] intenti (…) a innalzare il mondo materiale verso lo spirito» (p. 308). Tutte queste spatafiate buoniste si inseriscono nel tessuto del libro come i cavoli a merenda – e, almeno per quanto mi riguarda, tali furbesche manovre di captatio benevolentiae hanno un effetto francamente controproducente. Nonostante tutto, mi ha fatto piacere trovare a p. 145, a proposito di Modigliani, un riferimento a quel fecondo pensatore livornese, Elia Benamozegh, che tanto si è sforzato per fare uscire l’ebraismo dal suo isolazionismo oltranzista, per spingerlo verso l’acquisizione di una decisa impostazione ecumenica – insomma, per farlo diventare una vera e propria religione universale. Secondo Benamozegh, l’allargamento delle potenzialità salvifiche dell’ebraismo a tutta l’umanità potrebbe essere raggiunto attraverso l’accettazione generalizzata dei sette princìpi del noachismo; il quale consiste in una sorta di distillato dei 613 precetti dell’ebraismo, talmente sintetico, talmente degno del consenso di ogni persona di buona volontà e di sana ragione che esso può essere ritenuto, a buon diritto, una concrezione cristallina di veri e propri universali etico-religiosi. Meno male, dunque, che Doliner abbia adottato – bontà sua – questa avvincente prospettiva noachita che, secondo gli ebrei meno particolaristici, basterebbe a mettere i doni della grazia divina anche alla portata dei gentili che ci si conformino: se il «solido fondamento» di una sana vita spirituale, «per l’ebreo fedele alla sua tradizione», «è nei 613 precetti reperibili nella Torah», «per i non ebrei è ancora più semplice, non essendo indispensabile ubbidire nemmeno ai Dieci Comandamenti. Sono sufficienti le sette leggi universali contenute nella storia (…) di (…) Noè» (p. 307).
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