BIOGRAFIA E RIVISTA CRITICA DELLE OPERE DI F. D. GUERRAZZI Il livornese riteneva che solo mediante soluzioni radicali, come le rivoluzioni, si può assistere ad una vera e profonda trasformazione della situazione politica e sociale dell'Italia per gettare nuove basi per una società più libera e più giusta: la rivoluzione non è un demone, bensì una necessità, in quanto è il metodo più rapido e sicuro che, operando la distruzione e la trasformazione del presente, implica per necessità miglioramento avvenire; soltanto chi, per viltà di animo o per egoismo di interessi privati, ha paura delle conseguenze sconvolgitrici che un moto rivoluzionario determina nella conformazione politica e nella struttura sociale di uno stato, può negare la necessità del ricorso alla lotta violenta e alla guerra civile come condizione ineliminabile di rinnovamento e di sviluppo: A mio parere, per eccesso di bontà, o per manco di arditezza unicamente si può negare il bisogno della distruzione come prodromo della creazione; e mi sembra che la esperienza avrebbe dovuto a quest'ora ammaestrare che i due metodi non possono esercitarsi contemporaneamente perché il vecchio ammazza il nuovo, o piuttosto lo perverte tramutandolo in nudrimento a prolungare la propria vita. Sulla necessità di una rivoluzione, lo scrittore insiste quindi soprattutto nel Il secolo che muore, che rappresenta la testimonianza esplicita del disinganno e della delusione provati dall'autore per il modo in cui si era risolto il travaglio del Risorgimento e si era venuta organizzando la società italiana dopo l'unificazione. Il secolo che muore è il romanzo al quale il Guerrazzi lavorò fino agli ultimi mesi di vita e che può essere considerato il suo testamento politico e letterario. Naturalmente perché la rivoluzione potesse riuscire erano necessari, secondo il Guerrazzi, l'intervento e l'apporto delle masse popolari che, con la loro forza numerica e la rabbia concepita in secoli di oppressione, erano le uniche capaci di sconvolgere le strutture politiche esistenti. Questa la principale differenza dai moderati che avevano paura del popolo e di perdere il controllo dei moti, mentre il Guerrazzi sosteneva che le agitazioni popolari non solo non dovevano essere represse, ma anzi andavano stimolate e guidate. Fu polemico infatti verso la guardia civica che, col pretesto di garantire l'ordine a favore del popolo, in realtà reprimeva ogni tentativo di insurrezione, e secondo il Guerrazzi non era altro che scudo di cartone in guerra, grandine di manette di ferro in pace, di rado difesa contro i nemici esterni, sempre arnese di tirannide dentro, almeno nella intenzione di chi l'ordina e li tiene ai suoi servizi. Anche se condivideva l'ideologia delle masse popolari però, il Guerrazzi in realtà considerava gli strati sociali più bassi soltanto come massa di manovra contro l'oppressione straniera e le classi dominanti; nel suo programma politico infatti il popolo aveva una funzione prettamente distruttiva, non creativa, della società che sarebbe uscita dalla rivoluzione: il popolo sa e può distruggere le vecchie strutture perché come forza devastatrice è onnipotente, ma non può costruire nulla e nemmeno assicurare ordine e programma alla sua azione eversiva perché come forza ordinata non vale. Secondo Guerrazzi è necessario, quindi, che la guida del moto rivoluzionario e il compito di ristrutturare su nuove basi la società quando essa sarà uscita dal periodo dei disordini siano presi dalla classe borghese-democratica, perché la borghesia è l'unica ad avere i mezzi e le capacità per operare in modo ordinato il rinnovamento. Tale strumentalizzazione del popolo gli venne rinfacciata da tutti i moderati, i quali temevano i rischi di un'insurrezione popolare
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