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Anno edizione: 2014
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Tiziana Sferruggia è una chirurga della narrazione. Il suo stile mi ha ricordato lontanamente la Messina, ma ciò che mi ha davvero colpito è la serrata divisione concettualistica in brevi capitoli della storia di Rosetta, una donna molto particolare, una madre che “non era una madre, era solo un giudice che aveva un suo codice etico che applicava alla lettera”. Ogni capitolo ha un titolo che indica al lettore di cosa si parlerà: la giovinezza, il padre, il matrimonio, la maternità e così via dicendo, una tecnica avvincente, perché il lettore si sente realmente preso per mano e portato in quei luoghi in cui vuole l’autrice, senza possibilità di staccarsi. Un talento non comune. Calamita, magnete, un centro di gravità permanente per dirla alla Battiato – e d’altro canto è anche quello che cerca la protagonista, anche se in maniera discutibile. La signora Rosetta Drago è una donna impossibile che non si augurerebbe in moglie al peggior nemico. Aspirante borghese ma “borghesissima” nella mentalità, bigotta, classista, una donna che ha preso marito non per amore, bensì per migliorare il suo status sociale giacché lei è la figlia di un fioraio, proviene da un quartiere popolare e per tutta la sua vita non ha desiderato altro che fuggire la gente del popolo, la sua maleducazione, i suoi cattivi odori. Sin dalla più tenera età lei non ha nutrito soltanto questo bisogno, ma ha anche sognato il denaro come testimonia un compito svolto in classe che lei ritrova quando oramai il sogno conquistato della ricchezza si è frantumato: “Io verso i venticinque anni m’immagino così: sarò certamente già sposata, una signora con molti gioielli perché mi piacciono tanto e avrò anche bei vestiti e scarpe e borse di vera pelle (…) Ecco io sarò così, poi mio marito ci raggiungerà con l’auto di lusso”. Non ci sono errori di grammatica in quel tema, ma solo una nota a piè di pagina dell’insegnante – una donna dalla Drago descritta come una “femminista degli anni Cinquanta, polentona e massiccia come una mula” – una nota che dice: “Perché tutto questo si realizzi, ci vuole almeno un industrialotto della Brianza. E qui chi ce lo porta? Studia e lavora e non avrai brutte sorprese”. La giovane Drago non capisce l’amaro sarcasmo e il genuino consiglio dell’insegnante, ma la vita sarà con lei crudele e solo alla fine comprenderà. La Drago è una donna che ha avuto da sempre una grande paura della miseria e questa paura condizionerà non solo la sua esistenza, ma le impedirà di vedere chi è realmente suo marito, le renderà impenetrabile la figlia che “non è una ragazza come le altre”, ma soprattutto questa paura ergerà un muro fra lei e il figlio che la signora arriverà a detestare profondamente considerandolo un uomo privo di virtù come il padre. E proprio l’essere vittima di questa paura fa della Drago un personaggio per il quale alla fine il lettore nutrirà una certa simpatia. Quando tutto sarà finito, quando gli eventi scaraventeranno la donna nei miseri quartieri da dove proviene, ecco che succede qualcosa, che se non proprio apre la sua mente, almeno… come dire, fa sperare in un minimo cambiamento. Prima che tutto ciò accada, però, sono tante le delusioni che la Drago dovrà avere, e una delle tante, forse la più toccante, è il dovere assistere al ritorno del figlio nei quartieri popolari prima che avvenga a lei. Non è forse quello che sta succedendo oggi in Italia? Quanti genitori che hanno raggiunto la dignità di una laurea grazie alla generazione dei nonni che hanno ricostruito questo paese, sono costretti oggi a vedere i propri figli alla stregua di reduci di un’ulteriore guerra perduti come sono nell’inferno del precariato e dei lavori più umili? È un libro che fa riflettere e ne consiglio vivamente la lettura. Non è un caso che sia stato segnalato alla XXVI edizione del Premio Calvino.
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