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Mi piace iniziare questo commento citando le parole stesse dell’autrice: “ Per scrivere è necessario svelare la propria anima. ” Ecco la chiave di volta di questo bel romanzo di Annamaria Risi, che con l’abilità narrativa che la contraddistingue, ci svela i segreti più reconditi del suo passato familiare. Attraverso una lettura circostanziata -la nascita di sua madre - prende forma la vera storia, a partire dalle origini, l’infanzia rubata, un’adolescenza difficile e stentata, ricordi e soprusi che verranno inevitabilmente portati in superficie mano mano che la trama prenderà forma in un percorso autobiografico di riflessione ed autocoscienza. Ciascuno di noi attinge alle proprie radici. Ciò, non è permesso alla protagonista di “Un seme d’inverno”, creatura generata da un crudele atto di violenza, abbandonata subitaneamente da chi l’ha messa al mondo ,prima in un orfanotrofio, e successivamente presa in affido da una coppia che le farà vivere un’identità che non le appartiene. La ricerca disperata della “verità” senza la quale la nostra esistenza non può procedere, viene offerta al lettore in un monologo interiore, a tratti commovente. Attraverso un lungo percorso di rinascita interiore, Giorgina, questo il nome della madre stessa dell’autrice, si riapproprierà piano piano del passato che le è stato ingiustamente sottratto. Non sarà facile per lei raggiungere lo scopo. Gli ostacoli sul suo cammino saranno innumerevoli, le circostanze spesso avverse, ma la sete di giustizia e la caparbiertà di cui è dotata le permetteranno di avere la meglio sui fantasmi della sua infanzia. La narrazione, scorrevole, procede su binari paralleli. Una contemporaneità di flash-back e dialoghi, rappresentano il fulcro stesso della vicenda che si snoda in un arco temporale piuttosto lungo, il periodo pre-bellico, gli anni immediatamente successivi la guerra, e la lenta ripresa economica del paese. Pur non soffermandomi sull’evoluzione della trama, per non togliere il piacere della scoperta al lettore, desidero sottolineare l’originalità della storia che per certi versi è uno spaccato di vita più volte raffigurato dalla cinematografia italiana degli anni cinquanta. La povertà, i disagi, la fatica dell’esistenza rurale, la gravissima condizione di emarginazione femminile, un dejà-vu, che ci consente di prendere contatto con i protagonisti del romanzo e condividerne la loro storia. Sarà solo attraverso una lunga e difficile presa di coscienza che Giorgina riuscirà a guardare con rinnovata fiducia al futuro che l’aspetta. Un atto dovuto, un atto di amore, perché è solo attraverso un percorso di riconciliazione con il proprio passato che si può affrontare con serenità l’avvenire. Il commovente incontro con la madre naturale, stigmatizza il senso di tutto il romanzo. Come in una metafora, anche il più piccolo seme, sarà in grado di generare una pianta. La pianta crescerà, metterà forti radici, e poi i rami, le foglie, e poi fiori, quindi i frutti. Questo è il senso più autentico della vita, per non dimenticare che “ Anche al più duro inverno segue sempre la primavera.”
Potevo seguire la “cronologia” di uscita dei libri di AnnaMaria, dal primo fino all'ultimo. Mi sono catapultato invece dal mio già deciso, a leggere UN SEME D'INVERNO che già il titolo stesso mi aveva dato a pensare che appunto un seme, si presenta ad una sorta di non sapere se dopo un inverno incerto, potrà germogliare e dare frutti. Un po' come la nostra vita: seme che diventerà grande e dovrà attraversare tempeste o quieti apparenti, sballottato anche da un destino già tutto scritto o segnato. Come faccio spesso quando un libro “mi prende” e anche con risvolti autobiografici o no che comporta, mi sono calato nella protagonista di questo racconto vestendomi, sentendo e provando odori simili, per cosa si prova in situazioni come è un abbandono. Da sempre, uomo o donna che sia, viviamo gli abbandoni come devastazioni di personalità che si ripercuotono poi nel proseguimento della nostra vita….. e che ce la cambiano. E non c'è medicina, non c'è tempo di calendari che si consumano, a darci pace come fa appunto la protagonista del racconto che con dolore e caparbietà, cerca di riappropiarsi del suo io. Sicuramente una storia di identità, di dolore vero tra il vagare incerto tra orfanotrofi o case di accoglienza momentanei o di tetto d'amore mai naturale, che certamente lascia cadaveri di personalità, tra prese e rifiuti, paure e speranze. Un libro che “fa male” da metterti all'angolo come in un ring a riprendere respiro tra un round e l'altro, tra una pagina e l'altra. Cerca di guarire l'animo, lascia a chi lo legge come ho fatto io, il pensiero che un dolore non si può mai capire fino in fondo se non lo si vive sulla propria pelle. Una storia come tante storie, una storia nella storia di un cammino tortuoso e sempre in salita, una storia d'abbassare lo sguardo ma non per vergogna. Una storia in bianco e nero e priva di colori vivi da presentarci, alla ricerca di quei colori appunto che possono dimezzare un dolore.
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