(Padova 1496 ca - 1542) autore teatrale e attore italiano. Figlio illegittimo, pare, di un ricco e autorevole medico, visse per lo più a Padova, ma operò soprattutto nella campagna, dove si occupava dell’amministrazione dei beni paterni e di quelli di un suo amico e protettore, Alvise Cornaro. Fu proprio alla corte di questo mecenate che R. riconobbe le proprie doti di uomo di teatro, improvvisandosi attore e insieme scrivendo opere teatrali di carattere rusticano e d’intonazione comico-farsesca. Mantenne sempre buoni rapporti con i suoi parenti e condusse una vita sufficientemente agiata. Quando morì, sebbene ancora giovane, era già famoso anche fuori di Padova, specialmente a Venezia, dove le sue recite vennero ricordate da Marin Sanudo.R. scrisse principalmente in dialetto «pavano», ma all’interno di ciascuna opera ogni personaggio parla e usa il linguaggio dello strato sociale cui appartiene. Le prime opere giovanili di teatro sono la Pastoral (1518 o 1520), che introduce nell’aura languida d’Arcadia le oscene e parodistiche difformità del contadino, e La Betìa (1524-25), dove inizia la caratterizzazione del personaggio contadino «Ruzante» e del suo mondo naturale, contrapposto a quello classico (e inoltre R. vi coglie occasioni per tradurre in chiave giullaresca e parodistica il dibattito platonizzante sulla natura dell’amore). Dello stesso periodo sono la Prima orazione (1521) e la Lettera giocosa (1522). Ispirate a un tono più grave e grottesco sono le quattro successive opere di teatro: i due atti unici conosciuti col nome di Dialoghi (cioè il Parlamento e Bilora, 1528-29) e il Dialogo facetissimo, nei quali R. accentua i temi della fame, della schiavitù sessuale e dell’ostilità cittadina, arrivando nel secondo dialogo fino allo sbocco estremo del delitto; e la commedia in 5 atti La Moscheta (o Moschetta, 1529), dove emergono e si drammatizzano motivi tipici del repertorio cinquecentesco (temi boccacceschi, giochi d’inganni amorosi, di beffe e di travestimenti) che hanno per protagonisti contadini inurbati a Padova e non più ricacciati dalla città. Sempre del periodo della carestia e delle guerre è la Seconda orazione. Più tarde sono invece La Fiorina (1531-32), La Piovana (1532) e La Vaccaria (1533), le due ultime rifacimenti di testi plautini che testimoniano di una volontà di promozione classicistica della drammaturgia dialettale e fanno intravvedere la possibilità di un’integrazione pacifica dei due mondi con la riduzione del villano a servo moraleggiante. Del 1536 è l’importante Littera all’amico Alvarotto, in cui R. volle esprimere, nella finzione di una visione in sogno, l’aspirazione a un edonismo naturale ed elaborò il suo mito vitalistico dell’«Allegrezza» («madona Legracion»). Sono inoltre da ricordare l’Anconitana, opera di teatro di difficile datazione (1522, 1529 o 1534), il Sonetto, unico suo componimento di questo genere, e le Canzoni, messe in luce da non molti anni.Famoso in vita e subito dopo la morte, dimenticato poi dalla nostra storia letteraria, R. ha visto la sua immagine a lungo ancorata allo stereotipo romantico del balordo emarginato, dello scrittore irregolare e geniale: immagine avvalorata anche dai primi attenti studiosi della sua opera, i quali accentuarono il legame dialettale con la tradizione regionale e parlarono di ascendenze di letteratura rusticale, popolare, popolareggiante. Una feconda convergenza di filologia, erudizione e interpretazione storico-teatrale ha consentito alla più recente critica di fare giustizia di questo stereotipo, valorizzando la rusticità espressiva di R. come risultato non di una condizione esistenziale e di una cultura periferica, ma della sua poetica della «naturalità» coscientemente perseguita e polemicamente ribadita in senso antinormativo e anticlassicistico per la piena affermazione estetica ed etica del suo concetto di natura.