Indice
Le prime frasi del libro:
Salvatore Giuliano
Questa è una storia di bugie.
La Storia, anche quella con la esse maiuscola, è sempre piena di bugie, ma quella dell’Italia dal dopoguerra a oggi lo è particolarmente. E per loro che i misteri che ci accompagnano da più di cinquant’anni di Prima e Seconda Repubblica sono misteri, per le bugie, tanto che quasi quasi non dovremmo neanche chiamarli misteri, ma segreti. La verità è li, potremmo prenderla, guardarla, toccarla, leggerla, ma sopra c’è qualcosa, una menzogna, una deviazione, una bugia che ce la nasconde, la fa sparire, la rende segreta.
Questa è una storia di bugie.
È la storia di un uomo, di un bandito, così inafferrabile e astuto che nessuno riusciva a trovano. Cosi potente, sanguinario e feroce che faceva paura soltanto sentirne il nome. Ma anche così strano e complesso da diventare una leggenda.
Questa è anche una storia di carabinieri e poliziotti, di altri banditi, di confidenti e di spie, di giornalisti, di uomini politici, di sindacalisti e di povera gente.
Ma soprattutto è una storia di bugie, di fantasmi e di misteri, una di quelle storie che avvengono in Sicilia, dove spesso, quando si parla di certe cose, quelle cose potrebbero non essere come sembrano.
Questa è la storia del bandito Giuliano.
Per noi, adesso, inizia dalla fine.
E inizia con una fotografia e una bugia.
La fotografia è una delle più famose della storia d’Italia.
C’è un uomo, a terra, in canottiera e sandali. Morto. Le gambe che si vedono dietro di lui sono di un carabiniere, e la cosa che ha vicino, poco distante dalla mano, come se gli fosse caduta, è un mitra. Il mitra di un bandito.
Perché quell’uomo è un bandito, anzi, no, è il bandito più ricercato d’Italia.
È il bandito Giuliano.
Che cosa è successo per arrivare a quella fotografia?
Siamo a Castelvetrano, in provincia di Trapani. È il luglio 1950 e sono le 3,15 della mattina.
Sulla strada scendono tre uomini che non sanno di essere attesi dai carabinieri appostati nei dintorni. Uno è davanti, con le scarpe in mano, e gli altri due stanno dietro. Poi un carabiniere si muove, uno degli uomini se ne accorge, è armato e spara. I carabinieri reagiscono e sparano anche loro. Quello senza le scarpe scappa, gli altri due si fanno strada a colpi di mitra. Uno riesce a sparire nei vicoli di Castelvetrano, ma l’altro no, ha un attimo di esitazione. E a capo scoperto, passa sotto un lampione e i carabinieri lo riconoscono subito: è l’uomo che stanno cercando, il fantasma inafferrabile che da quasi cinque anni sta tenendo sotto scacco le Forze dell’ordine di tutta la Sicilia.
È il bandito Giuliano.
Inquadrato dal fuoco dei mitra, Giuliano fugge verso il cortile di casa De Maria, sparando. Una sparatoria intensa, quaranta colpi esplosi dal bandito e centonovantuno dai carabinieri.
Colpito di fianco da una raffica, poi di fronte, a meno di due metri, da quella di un ufficiale nascosto dietro un pozzo, Giuliano crolla a terra, in mezzo al cortile.
Appena il tempo di emettere un rantolo e muore.
Rapporto numero 213/24 del 9 luglio 1950, indirizzato al Comando forze repressione del banditismo in Sicilia, Gruppo squadriglie centro.
Firmato: capitano dei carabinieri Antonio Perenze, l’ufficiale che stava appostato dietro il pozzo, che ha sparato a Giuliano di fronte.
Ecco, non è vero.
La dinamica raccontata nel rapporto, Giuliano steso a terra ucciso in quel modo: non è vero. Alcuni giornalisti che arrivano sul posto sono i primi ad accorgersi che c’è qualcosa di strano nel cortile di casa De Maria. Tra questi Franco Grasso, che allora dirigeva la cronaca del giornale «La Voce della Sicilia».
Il professor Grasso. Dice: «Giunsi in ritardo poiché la mia macchina si era guastata. Assistetti per un momento ai brindisi dei miei colleghi, avendo già in mente che la versione poteva essere falsa. Un fornaio che lavorava di notte mi disse che aveva prima sentito un colpo isolato e dopo una mezz’ora una tempesta di colpi».
Non torna. Poco prima dell’azione, i carabinieri hanno fatto allontanare due fornai in attesa che il pane lievitasse, e la loro versione sul conflitto a fuoco è diversa. Basterebbe guardare la fotografia.
Il bandito Giuliano è a terra, morto. Indossa i calzoni con la cintura che ha saltato due passanti, come se gli fosse stata infilata da qualcuno. Un particolare poco visibile e comunque neppure molto importante, certo.
I sandali, allora.., sono calzati, ma ce n’è uno slacciato. Un particolare, anche questo, neppure così univoco. Può voler dire tutto, e non solo che il corpo di Giuliano è stato manipolato.
Ma la canottiera no. Quella è davvero strana.
Perché il bandito Giuliano dovrebbe essere stato colpito al torace e dovrebbe essere caduto a terra, in avanti, sulla pancia, dove sarebbe rimasto disteso per molto tempo, senza essere toccato da nessuno.
Ma il sangue che uscendo delle ferite ha intriso la canottiera è sulla schiena. Cos’ha fatto, il sangue? E colato verso l’alto? Invece di scendere giù e trovarsi sulla pancia di Giuliano è salito su, impregnando la schiena?