Indice
Le prime frasi del romanzo:
- Che tramonto bello! - fece il maresciallo Corbo scostando per un attimo il fazzoletto che teneva premuto sul naso. - Ce ne sono, dalle parti tue, tramonti così?
Il carabiniere Tognin avrebbe voluto rispondere di sì a parole, dire che dalle parti sue forse ce n'erano di meglio, ma era di Venezia, a certi spettacoli non era ancora abituato e sentiva di tanto in tanto uno strizzone di vomito che gli contraeva lo stomaco. Fece solo un cenno affermativo con la testa.
Effettivamente il tramonto era da godersi. Lontano, a ponente, verso il mare distante qualche chilometro, la sagoma frastagliata di Capo Rossello spiccava controluce, scura, sullo specchio calmo, arrossato, mentre da levante carriche nuvole d'acqua arrancavano verso il paese appena visibile ai piedi della collina sulla quale loro si trovavano. Un contrasto netto, tagliato sol coltello, che aumentava il disagio di Tognin abituato a un paesaggio più morbido e pacifico.
L'omaggio alla poesia era costato a Corbo una smorfia di schifìo per la densa zaffata che gli si era subito attaccata alle narici: a settembre, in Sicilia, il sole batte ancora forte.
Il terzo uomo, un contadino, non aveva isato gli occhi che teneva puntati a terra, si era arrotolata una sigaretta - cicche e trinciato forte - e ora stava a fumare appoggiato a un albero. Il maresciallo aveva gana di pensare al tramonto, ma lui no: salta il tronzo e va in culo all'ortolano, diceva il proverbio. Il tronzo era saltato e lui ora se lo poteva tenere in quel posto. Vicinissimo ai suoi piedi, con le gambe dentro un sacco legato alla vita, le mani serrate dietro la schiena da una sottile cordicella, l'ammazzato impestava l'aria mezzo ammucciato da una macchia di saggina. Un paio di scarpe consunte - le sue - gli erano state in bell'ordine assistimate sul petto.
Due ore avanti il contadino, sottosopra - un po' troppo, a parere di Corbo che in queste cose ci vedeva quasi sempre giusto - si era precipitato in caserma a contare che, passando per un viottolo al limite del suo campo, aveva trovato un morto. Ora stavano lì, ad aspettare il pretore che se la pigliava sempre comoda.
"Speriamo che arrivi prima che venga giù il diluvio" pensò Corbo, tenendo il respiro e asciugandosi con il fazzoletto il sudore sul collo. Tutto quello che per il momento c'era da dire, con il contadino, era già stato detto: adesso bisognava insistere, armandosi di santa pacienza, ripetere sempre le stesse domande perché si inchiovassero su quella testa dura di legno.
- Io vorrei solo sapere - attaccò ancora una volta Corbo per fare onore alla firma - quanto tempo te la sei stata a pensare.
- Appeno l'ho visto, sono corso - disse il contadino.
- Gli hanno sparato come minimo tre giorni fa - continuò Corbo - o ti è caduto il naso?
- E io da tre giorni non passavo.
Ci fu un silenzio. Poi il contadino riprese a parlare, senza voltarsi a nessuno in particolare.
- Se lo sa lui dove l'hanno ammazzato. E me l'hanno portato qua, questo bel regalo.
- L'avranno messo nel sacco per poterlo trasportare meglio - intervenne Tognin. E non potendo tenere oltre la curiosità: - ma perché quelle scarpe?
Il maresciallo Corbo non rispose. Il contadino invece volle essere gentile con il forestiero, macari se carabiniere.
- Questo voleva scappare - disse.
E per quanto ci fosse stato attento, non riuscì a tenere a controllo un involontario disprezzo nella voce.
Aveva appena scampato. Un'acqua settembrina, furiosa e rapida, che non aveva fatto in tempo a spremere il calore dalle case, anzi l'aveva reso più pesante e visibile nel vapore che usciva dai muri. Uscito dal cinema, Vito sentì che il mal di testa gli cominciava a passare.
Aveva sofferto assà, subito entrato, dentro lo squallido forno dove gli odori degli spettatori si raggrumavano, ma il film, per quanto scipìto gli fosse parso fin dalle prime immagini, aveva finito per alloppiarlo, e lui l'aveva sopportato con rassegnazione.
- Buonanotte, Vito.
Il saluto del dottor Scimeni, che aveva sottobraccio Carmela, la figlia ventenne, lo prese di sorpresa, e tardò a rispondere, scusandosi. Poi si avviò appresso ai due, incerto però se dirigersi verso casa o fare un salto da Masino, al caffè. All'angolo si fermò, ancora indeciso, e infilò la mano in sacchetta per cercarvi il pacchetto di sigarette. Non lo trovò. Doveva averlo scordato al cinema, ora ricordava che c'era stato un momento che aveva appoggiato il pacchetto sul posto allato al suo, vacante. Era inutile tornare indietro a cercarlo. A quest'ora, sicuramente c'era chi si stava a godere la grazia di Dio. Taliò l'orologio, la mezzanotte era da poco passata.
Non era molto tardi, considerata la stagione, ma per le strade, un deserto. Qualche segno di vita invece si indovinava sui balconi, dove c'era chi ancora se la pensava per trovare il coraggio necessario a baschiare tutta la notte dentro una càmmara.
Sboccò sul corso, sorpassando il dottor Scimeni e la figlia che si muoveva un poco di lato come un gambero, la gamba destra fatta storta dalla poliomielite, e si diresse verso l'insegna del caffè di Masino, ancora accesa.
-Senti, Vito.
Tornò sui suoi passi, il dottore aveva lasciato indietro Carmela e camminava verso di lui.
-Vorrei parlarti, domani, quando ti fa comodo.
-Quando fa comodo a lei.
Non si domandò di cosa il medico volesse parlargli, macari se la richiesta l'aveva tanticchia stupito. Non c'era mai stata confidenza fra di loro, le scarse volte che aveva avuto bisogno del dottore il discorso si era limitato alle strette necessarie parole. Inoltre la disgrazia capitata alla figlia aveva fatto più orso Scimeni, che era restato vedovo e non aveva voluto più rimaritarsi.
-Allora diciamo alle sei da me. -Senz'altro. Buonanotte. Il medico rimase fermo a taliàre Carmela che gli si avvicinava sostenendosi con una mano al muro.