Le prime frasi
1.
Era in terza fila accanto a una ragazza con i capelli blu e mi bastò vederlo per sentire un dispiacere fievole, come l'inizio di un malumore. Finché parlai, mi fissò senza consenso, stringendosi il gomito con la sinistra e tenendo le dita della mano destra davanti alla bocca. Fu quella posa a rendermi scontento. Mi sembrò un'armatura vanitosa, di quelle che indossavo anch'io da ragazzo per sentirmi distante e fuori della norma. Perciò, trascurando il resto dell'uditorio, mi rivolsi spesso a lui, specialmente quando facevo domande o dicevo cose spiritose. Volevo che si imbarazzasse, che ridesse, che insomma si agitasse sulla sedia fino a cambiare posizione e cedermi. Ma il giovane non mostrò disagio né ebbe mai un guizzo di allegria. Forse perché aveva capelli neri ondulati ma ciglia chiare sopra gli occhi azzurri, dava l'impressione di uno che ha sempre tutto ciò che può servire e non conosce l'ansia. Seguitò per tutto il tempo, con il solo fatto di esserci, a ostentare una contegnosa inviolabilità.
Alla fine della serata in molti mi si affollarono intorno, per lo più aspiranti scrittori. Lui no, lo persi di vista. Alcuni avevano quesiti letterari da sottopormi, altri tendevano copie dei miei libri per farsele firmare. Distribuii autografi con garbo e risposi senza fretta alle domande, anche se in realtà non vedevo l'ora di tornare a casa. Quando mi accorsi che le chiacchiere, invece di scemare, si infittivano, cominciai a spostarmi piano verso l'uscita. La manovra ebbe successo, feci un cenno di saluto che avesse l'apparenza di un gesto definitivo e infilai la porta.
Una volta fuori, al freddo, mi strinsi alla gola il bavero del cappotto e affrettai il passo verso piazza Risorgimento. Fu a quel punto che il giovane impassibile mi tagliò la strada. Disse con una voce scontrosa a cadenza lievemente meridionale:
"Un minuto solo".
"Sì."
"Ho scritto un libro."
"Bene."
"Devi aiutarmi a pubblicarlo."
Il tu, quel devi, l'assenza di preamboli cortesi mi infastidirono. Lo guardai, era intorno ai vent'anni, aveva un torace largo, il collo dai tendini grossi, un'aria di forza e salute. Malgrado il freddo indossava solo un maglione scuro sui jeans molto logori. Portava a tracolla una borsa grande, come quelle dei postini, e nella destra stringeva un oggetto che pareva un sigaro. Mi venne un tono rigido:
"Fammelo leggere e poi si vede".
"Non c'è bisogno."
"C'è bisogno, se vuoi un parere."
Rispose:
"Non mi serve un parere, mi serve una mano per arrivare a un editore".
Ebbi un tuffo al cuore che era l'aborto di una reazione violenta. Mi succede spesso, sono attimi sgradevoli. In quei momenti sento di portarmi dentro più strati di linguaggio: sopra c'è quello curato a cui ricorro di solito; sotto, le lastre si inarcano, la sintassi si spezza e vuole schizzare fuori un urlio schiumoso.
"Scusami, ho fretta" tagliai corto e ripresi a camminare.
"Aspetta."
Mi afferrò un braccio con dita robuste e non timide. Te metti che quella specie di sigaro stretto nella destra fosse un coltello con la lama a scatto.
"Guarda che ho pagato tutte quelle lezioni del cazzo solo per avere la possibilità di parlarti."
Disse così, usò proprio la parola cazzo, ma non bisogna pensare che la frase fosse pronunciata con disprezzo o malevolenza. Fui io che mi impressionai, gli sottrassi il braccio, mi guardai intorno. Per fortuna in quel momento passò un taxi e gli feci un cenno sperando che fosse libero.
"Mi dispiace per i tuoi soldi, li hai spesi male."
Il taxi si fermò, entrai, chiusi subito la portiera.
Il ragazzo mormorò accigliato, come se la mia reazione gli sembrasse deludente:
"II mio libro è bello".
Lo fissai per un attimo, poi diedi l'indirizzo al tassista senza rispondergli. Lui allora ebbe un gesto di sconforto e, dopo aver cercato nella borsa, gettò attraverso il finestrino mezzo aperto, sul sedile accanto all'autista, un dattiloscritto. Il tassista, che era appena ripartito, frenò di colpo come se temesse un'esplosione e mi lanciò uno sguardo spaventato attraverso lo specchietto retrovisore.
Io mormorai fintamente calmo: vada.
L'auto si mosse, scivolò nel traffico verso il lungotevere. L'uomo al volante aveva la schiena grossa, un aspetto trasandato. Attese un po', quindi mi passò il dattiloscritto con cautela. Lo presi, me lo tenni per tutto il viaggio sulle ginocchia e intanto provai a cacciare via l'agitazione. Mi domandai perché mi fossi indispettito, invece di affrontare la situazione con distacco. Poi respinsi la domanda e quasi mi assopii.