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«Agli inizi, nella promiscuità in cui si operò lo slittamento verso la vita, qualcosa di innominabile dovette accadere, che si propaga nei nostri malesseri se non nei nostri ragionamenti. Che l’esistenza sia stata viziata alla sorgente, insieme agli elementi, chi potrebbe esimersi dal supporlo? Colui che non sia stato indotto a considerare questa ipotesi, come minimo una volta al giorno, avrà vissuto da sonnambulo». Cioran, che è l’opposto del sonnambulo – e subisce, se mai, la coazione alla «lucidità cronica» –, ha contemplato la suddetta ipotesi per lunghi anni. E così ha evocato, quasi un personaggio di romanzo, quel «funesto demiurgo» a cui accenna il titolo di questo libro e che ritroviamo, quale fedele compagno, non solo nei testi gnostici ma in ogni pensiero che non distoglie lo sguardo dal male. Se la colpa e «l’infermità di essere» hanno sulla nostra esistenza una presa così tenace, è perché avvertiamo che esse appartengono al mondo nella sua costituzione e non sono certo qualcosa che nasce e muore per un supposto arbitrio dell’uomo. Dire questo implica gettarsi in una lunga e fosca avventura. E qui ne percorriamo alcuni tratti, in acri variazioni sulle quali sembrano vegliare due numi tutelari: Baudelaire e il Buddha. Si parla, fra l’altro, del politeismo e del suicidio, del dubbio e della tolleranza, della liberazione e della sua impossibilità. I temi sono gravi, ma la prosa è leggera. Cioran è un virtuoso nell’evitare la ponderosità professionale del teologo o del filosofo. E ci offre qualcosa di più: una riflessione senza barriere protettive, lo stile acuminato di un etnografo del vuoto, di un clinico della tara primordiale.
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