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A chi assomigliano i pazzi? Al nostro modo di vivere e di pensare o al nostro modo di interpretarli? E le nostre interpretazioni sono forme di comprensione o modi sofisticati per tenere a distanza quello che Borgna chiama ‟il sorriso della sfinge”?Da quando è nata, la psichiatria sembra non abbia promosso altra via se non quella di tenere i pazzi a distanza, di porli di fronte a noi, attingendo dalla medicina quello strumento potente che da alcuni secoli era nelle mani di quella scienza: ‟l'oggettivazione”, per cui è possibile parlare di schizofrenia e di depressione come i medici parlano delle malattie che i loro modelli di indagine costruiscono. Dopo averlo oggettivato, dopo averlo tenuto adeguatamente a distanza come altro da noi, la psichiatria si è concessa di descrivere il pazzo con quelle parole ‟umane” che la tradizione religiosa metteva a disposizione, quindi in termini di pietà, sofferenza e dolore. Ma neppure questo ‟umano troppo umano” è riuscito a mascherare la distanza che non la follia, ma la descrizione psichiatrica della follia ha creato tra il mondo della ragione che tutti noi abitiamo e gli abissi della follia che i pazzi frequentano. Eugenio Borgna, nel denunciare l'inganno della separazione, toglie alla psichiatria la maschera e, senza la pietà delle parole che coprono la distanza che questa scienza ha inaugurato tra noi e la follia, costringe la sfinge a cedere il suo segreto u. I folli parlano come noi, delle cose di cui parliamo noi, parlano del dolore, della colpa, della lacerazione che ogni uomo, se ancora non s'è ridotto a cosa, sente dentro di sé come sua dinamica, come sua potenza e come sua disperazione. Ma per questo bisogna restaurare nel folle la soggettività che la psichiatria ha abolito e disporsi di fronte al folle come di fronte al Signore di Delfi che non dice e non nasconde, ma, come scrive Borgna offrendo na traduzione forte e nuova del vero 'semainei', 'significa'.
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