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Opera d’esordio, si inscrive nel filone del “romanzo sperimentale”, riunendo le declinazioni sociologiche di Zola, nell’osservare la società ed annotare, con quelle letterarie di Calvino, per l’azione combinatoria fra realtà e finzione. Vero e falso si intrecciano: 1) Nel racconto della realtà (letteraria), dove troviamo personaggi sicuramente veri (anche se non possiamo dimostrarlo) con altri probabilmente d’invenzione. 2) Nel racconto della stessa finzione, nella quale inscrivere la comparsa della mitologia, con la coesistenza di divinità mitologiche esistenti (Mefite) con altre create dall’autore (Anarcone). Proprio Mefite, dea della transizione, presenzia al passaggio dialettico espressivo, consentendo simbolicamente di valicare il confine fra vero e falso ed il libero gioco fra realtà e finzione, elementi letteralmente fusi nel racconto. Ed offre metaforicamente la “sanazio” all’animo tormentato, attraverso le sue acque purificatrici. Sperimentale sia nell’uso della soggettiva in prima, seconda e terza persona, sia nella dialettica fra realtà e finzione, sia nella stessa professione del personaggio, il cinema, di cui offre spunti innovativi (un film senza sceneggiatura). Il cambio di soggettiva avviene però con naturalezza, quasi come una “zoomata” filmica in cui il primo piano è costituito dalla narrazione in prima persona. Come con naturalezza avviene l’entrata in scena delle figure mitologiche, che assecondano nel trascendente le voci interiori di ribellione. In tutte le componenti è dunque un opera anarchica ancorchè messaggera di un oscuro codice interno, che il lettore intuisce anche se non riesce pienamente ad afferrare, fino allo svelamento finale. Il piano espressivo fa da supporto mimetico a quello del contenuto, dove troviamo insieme l’amore per le proprie origini e l’odio per gli elementi sociali che hanno turbato l’animo ribelle. Ribelle ma puro, nella sua etica solidale con gli umili, contro le convenzioni e le schiavitù sociali, ipocrite e corrotte, che lo hanno allontanato dalla sua amata terra. Ed allora l’unico modo per consumare la personale vendetta, rievocando il mito di Ulisse, è quella di “impugnare” la propria cinepresa come un’arma e di mettere a nudo, attraverso la spontaneità senza sceneggiatura delle riprese, il paradosso della realtà abbandonata. Una realtà che forse, a mostrarla filmata, frammista agli spiriti impressi nel proprio animo, non è detto che non si riesca ad intaccare. Sarcastico e rabbioso, irriverente e scanzonato, il personaggio di Pietro Cacciafumo, regista di film anarchici e impopolari, promette lunga vita. Si è presentato con un opera di rivalsa sulle proprie origini, ha in sostanza attualizzato i fotogrammi del suo passato, una sorta di “Pietro Cacciafumo Begins” ma la sensazione è che tornerà molto presto a filmare e raccontare la realtà vista dal suo “obiettivo”: un punto d’osservazione puntato su ogni forma di autorità o costrizione sociale per sbeffeggiarla, smontarla, rimuoverla.
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