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Il lavoro postumo qui pubblicato – si tratta di una tesi di laurea in scienze politiche il cui titolo recita sommessamente Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del ’600 italiano – ci permette di formulare un’ipotesi inedita sulla genesi e i caratteri della scrittura manganelliana. Inaspettatamente, gli autori di cui si tratta non sono quelli della tradizione machiavelliana, cui si è rivolta di preferenza nel dopoguerra l’attenzione degli storici, soprattutto in Italia, ma dei teorici antimachiavellici della Ragion di Stato. Se per Machiavelli il problema era di intendere e rafforzare il potere del principe, per i teorici della Ragion di Stato, da Botero a Zuccolo, da Paruta a Settala, il problema è di consolidare e comprendere lo Stato stesso. Nelle loro opere lo Stato acquista per la prima volta un’esistenza e una razionalità autonoma, e mentre la questione della legittimità giuridica del potere sovrano passa in secondo piano, sempre più centrale si fa l’analisi delle tecnologie attraverso cui lo stato si conserva e riesce a integrare con ogni mezzo gli individui nella propria razionalità, prefigurando i grandi organismi totalizzanti di amministrazione e governo che ci sono oggi familiari. Questa autonomia e invasività della politica barocca è il filo segreto che unisce questo saggio giovanile alle opere estreme, il ventitreenne, ma non ingenuo politologo allo stravolto veggente della fine.La politica è qui per lo studente quello che la letteratura sarà per lo scrittore: una pura intensità insostanziale ma coestensiva all’universo; come la letteratura essa “non ha luogo, ma penetra ovunque, anche nella preziosa forma dell’assenza”.
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