Indice
Le prime frasi del romanzo:
Il frastuono del casinò si diffondeva tutt'intorno, eppure sembrava che la frenesia del gioco non riuscisse a scalfire il loro mondo.
Lei interruppe il contatto tra i loro occhi per volgere lo sguardo verso il tavolino. Sollevò il bicchiere: ormai non conteneva che alcuni cubetti di ghiaccio e una ciliegina, ma non le importava. Anche lui sollevò il suo, in cui restava un'ultima sorsata di birra schiumosa.
"Alla fine" disse lei.
Lui sorrise e annuì. La amava, e lei lo sapeva.
"Alla fine" replicò lui. Poi fece una pausa. "Al luogo dove il deserto diventa oceano."
Anche lei sorrise. Avvicinò il bicchiere al suo, facendolo tintinnare, poi lo accostò alle labbra. La ciliegina le rotolò in bocca. Guardò il suo uomo mentre si asciugava la schiuma della birra dai baffi. Anche lei lo amava. Sentiva che erano soli contro l'intero fottuto mondo, ma quella sfida la esaltava.
Poi il suo sorriso si spense. Si rese conto di aver sbagliato: avrebbe dovuto prevedere la reazione di lui e sapere che non l'avrebbe più lasciata agire in prima persona. Sarebbe stato meglio aspettare che tutto fosse finito prima di dargli quella notizia.
"Max" gli disse in tono grave. "Lasciami andare. Dico sul serio. Un'ultima volta."
"Neanche per sogno. Stavolta tocca a me. Ci vado io."
Dalla sala del casinò giunse un urlo di gioia tanto potente da infrangere la barriera che sembrava isolarli dall'ambiente. Lei guardò di lato e vide un texano con un cappello Stetson da cowboy che danzava davanti a un tavolo di dadi, proprio sotto la galleria che si sporgeva sulla sala da gioco. Al texano stava appiccicata la solita accompagnatrice a noleggio, una donna con una gran massa di capelli che lavorava nei casinò fin dai tempi in cui Cassie aveva iniziato la sua attività di croupier al Trop.
Cassie tornò a guardare Max.
"Non vedo l'ora di lasciare per sempre questo posto. Almeno tiriamo a sorte chi di noi deve farlo."
Max scrollò lentamente il capo.
"Non è una partita a carte. Questo colpo spetta a me."
Poi si alzò e lei rimase a osservarlo dal basso. Era bello, cupo, e lei notò con tenerezza la piccola cicatrice sotto il mento, dove non gli cresceva la barba.
"È ora" disse Max.
Si voltò verso la sala guardandosi attentamente attorno, finché il suo sguardo si fermò sull'estremità della galleria sovrastante. Da lassù un uomo vestito di scuro scrutava la sala come un prete una comunità di fedeli.
Lei cercò di sorridere di nuovo, ma non riuscì neppure a sollevare gli angoli della bocca. Qualcosa non quadrava. Quello scambio delle parti all'ultimo momento la rendeva nervosa. Si rese conto solo allora di quanto avesse voglia di salire lei all'attico e di quanto le sarebbe mancata l'adrenalina che il colpo le avrebbe pompato nel sangue. Capì anche che in realtà stava pensando solo a se stessa, non a Max. Non si preoccupava per lui: semplicemente, avrebbe voluto provare quella ebbrezza un'ultima volta.
"Qualunque cosa succeda" disse Max, "prima o poi ci rivedremo."
Lei aggrottò la fronte. Un saluto simile non rientrava nel loro rituale, non si erano mai separati in un modo tanto triste.
"Max, cosa c'è che non va? Perché sei nervoso?"
Max abbassò lo sguardo verso di lei e alzò le spalle.
"Perché questa è l'ultima volta, immagino."
Si sforzò di sorridere e le carezzò una guancia. Poi si chinò e la baciò, spostando rapidamente le labbra sulle sue. Abbassò una mano sotto il tavolo e le fece scorrere un dito lungo l'interno della coscia, seguendo la cucitura dei jeans. Si raddrizzò senza una parola e si avviò. Attraversò la vasta sala da gioco diretto verso gli ascensori. Lei lo osservò allontanarsi, ma lui non si voltò. Faceva parte del rituale: mai voltarsi indietro.