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«La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni». Il folgorante inizio de L’Orologio contiene in sé la cifra del rapporto tra Carlo Levi e la città che forse più amò e che più fu sua. Una città, insieme, eterna e «fuggitiva», nobilissima e plebea, continuamente in bilico tra il cammeo e la patacca. In questi scritti, dedicati a Roma tra il 1951 e il 1963, si dipana il filo di un giudizio critico che coglie la città in una fase cruciale di trasformazione. Levi sente tutto il fascino di una Roma in cui vede convivere i tempi diversi di una vita popolare e quotidiana, che s’intrecciano con quelli di una storia tanto ricca da essere vissuta come «natura». Sfila così nelle sue pagine una moltitudine di tipi e personaggi, veri ritratti parlanti e gesticolanti di un mondo popolare «differenziato», di antichissima civiltà, dotato di sorprendente vitalità e insieme della più flemmatica e scettica filosofia di vita. Si sente il respiro di una città bellissima, in cui risplende tutta l’autenticità di una «umile Italia», non ancora oppressa dal degrado, e tuttavia già insidiata dalle trasformazioni sempre più accelerate degli anni sessanta, sotto i colpi della speculazione e della cattiva politica, di una frettolosa e incolta modernità.Vissuta dall’interno, nella sua più viva concretezza, la Roma degli anni cinquanta e sessanta appare una «meraviglia» minacciata, quasi mitica, che tuttavia ancora ci incanta con il suo fascino di cose perdute.Carlo Levi ci accompagna per le strade di questa città di sogno: dalle feste popolari di San Giovanni e della Befana a Piazza Navona al frastuono della fine dell’anno, al teatrino di Pulcinella al Pincio, all’umanità di un piccolo negoziante e della sua botteguccia piena di meraviglie, al vuoto affascinante del Ferragosto, al tripudio delle Olimpiadi e alle giornate della protesta civile del luglio 1960.
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