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Anno edizione: 2018
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Sono una ex-insegnante in pensione.Ho tanto da dedicare alle cose che più mi piacciono, per es leggere e ......scoprire cose della nostra storia che ignoravo.Pola? Istria? ma sono ancora italiane? boh!Vivere in questo libro il dolore,la sofferenza, le aspettative deluse, i massacri.Io sono nata subito dopo nel '50,ma nessuno mai mi ha raccontato questa storia, neanche al liceo classico.La curiosità è stata tale, che ho fatto ricerche su internet per capirci qualcosa. Quello che ho capito non mi è piaciuto:da vecchia comunista,quale sono,non mi sono piaciuti i vecchi compagni di allora, che col marchio di fascisti si sono permessi di accanirsi su un popolo...Italiano,nè la posione politica assunta dai governi del tempo.Ma... quando a scuola si studierà la vera storia????
Davvero un bel libro. Caratterizzazione dei personaggi, trama che scorre lungo un reale evento storico, scorrevolezza della scrittura e modalità narrativa. Si alternano senza difficoltà parti descrittive a dialoghi. Il linguaggio è comprensibile, non astruso o ricercato, e si fa apprezzare l’uso del dialetto, con la sua inconfondibile sonorità. Zecchi sviluppa il racconto calandosi nei panni di un bambino. Una soluzione che apre inusuali orizzonti lungo i quali tracciare il racconto. Ma questa è tutta un’altra storia rispetto a testi di altri autori che adottano questo approccio narrativo. Il mare e la natura sono ostici, crudeli, cupi, come il destino che grava sul piccolo Flavio. C’è la guerra, anzi, di più. C’è il dopoguerra, il momento del terrore, delle vendette, dell’odio che scorre a rivoli come il sangue. Qualcosa di peggio della guerra. Nella sua non sensatezza la guerra, una volta scatenata, diventa spesso un ciclone incontrollabile che travolge tutto e tutti, vincitori e vinti, senza fare distinzione, lasciando ovunque distruzione. Il dramma delle foibe, delle terre d’Istria e di Pola è qualcosa di metodico, programmato, una pulizia etnica a tutti gli effetti. Parlare di olocausto, di conflitti razziali, di pulizie etniche è doveroso, è un compito morale anche per non dimenticare. Talvolta rischia però di diventare “formale”, “istituzionale”, annacquandone il significato. Rischia di perdere parte dell’aspetto più emotivo e intimo, soverchiato dalle rievocazioni delle materiali nefandezze. L’arte, in genere, e nel nostro caso la scrittura consente di proporre non un saggio o un documento storico, ma di trasferire il fatto nella concreta esistenza dell’essere comune. La storia diventa quindi cultura, vita, memoria. E così può perpetuarsi non solo come nozione, come fatto, ma come emozione. Il piccolo Flavio vive sulla sua pelle il quotidiano precipitare degli eventi fino all’inimmaginabile. Il dolore, poi l’illusoria speranza, e la paura più profonda. Ci sono timori e sussulti. Mi viene spontaneo il parallelo con la vicenda di Marzabotto, magistralmente raccontata nel film “l’uomo che verrà”. La gente non fugge, vive la sua vita, perché non può in alcun modo immaginare la mannaia pronta a calarsi sulla vita. Umanamente inconcepibile. Flavio ritrova un padre che arriva dall’inferno e che sembra un estraneo alla sua vita. Che non vuole saperne di un altro inferno e che vorrebbe andare subito via. E i contrasti con la mamma, passionaria, idealista ma al tempo stesso pragmatica. Vede una nuvola oscura calare sul suo mondo e rapire uno dopo l’altro gli amici della sua infanzia, fino alla sua stessa mamma. Resta solo con quello sconosciuto, con quel padre che non riconosce tale. Perde ogni certezza, iniziando un faticoso cammino, fisico e umano, del quale riesce a vedere solo l’inizio ma non la meta. E’ un racconto, ma quella disperazione, quelle sofferenze, quelle attese, le vive anche il lettore, pagina dopo pagina. Sente la pioggia infradiciare il cuore, la morsa del freddo. Gli occhi vedono la natura aspra di quei colli, delle pietraie, delle foibe, delle polverose strade, della più oscura notte. La forza di una speranza nei rari e infuocati boschi d’autunno o nelle fredde stellate d’inverno. Flavio ritrova giorno dopo giorno il suo papà, forte e protettivo al tempo stesso, e lo riconosce anche come mamma. L’estraneo, mai conosciuto, il cui ruolo di genitore era stato preso dalla mamma, ora si dimostra all’altezza e ricambia con la stessa generosità della genitrice. Passo dopo passo… poi vedremo. Anche quando l’incubo pare finito, ma è pronto il calvario dell’umiliazione, dell’essere comunque un diverso, un rifugiato, nella propria patria. Ma scoprendo il senso profondo del vivere: “…gli andai incontro di corsa, lui mi sollevò e fece un giro su se stesso abbracciandomi. Eravamo commossi: Ci bastava poco, ci bastava sentire il nostro cuore battere forte…”.
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