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In quante case la sera la cena è condita con storie di malati? È un’ipotesi che avanziamo sulla base delle tante migliaia di medici, infermieri e altri professionisti sanitari che si prodigano nei percorsi di cura e si sentono coinvolti nelle vicende cliniche dei loro pazienti. Anche fatta la tara delle famiglie nelle quali vige la regola che a tavola non si parla di lavoro (e anche defalcate quelle in cui non si parla affatto, perché ognuno sta fisso sul suo dispositivo elettronico…), è credibile l’ipotesi che siano molti i professionisti sanitari che sentono il bisogno di narrare ai propri intimi quanto si portano dietro dai luoghi di cura. Non solo beghe di lavoro, gossip e aneddoti vari; quello che preme di più è la narrazione delle storie personali di coloro che la malattia e la fragilità ha deportato dal territorio saldo della salute nella palude delle cure. I malati non affidano ai curanti solo il loro corpo: dietro agli organi fragili fa capolino la vita intera di chi bussa alla porta di chi dispensa le cure. Vicende drammatiche, spesso; e non di rado dense di conflitti e di problemi morali. Decisioni terapeutiche perplesse (tentare il tutto per tutto o ripiegare sulla desistenza terapeutica? Quando fare di più non significa fare meglio e less is more?); percorsi di cura angoscianti (“Il vecchietto dove lo metto?”. Per il proprio caro visitato dalla demenza senile, il ricovero in una residenza o l’assistenza a casa? Con quali risorse? Chi decide alla fine tra familiari in conflitto?); dubbi etici e perplessità deontologiche (dare la priorità alla sicurezza giuridica dell’operatore o rischiare di avventurarsi in un terreno insidioso, perseguendo il bene del paziente?). Di questi e tanti altri interrogativi sono intessute le storie cliniche. Oggi la cultura del nascondimento, che faceva scomparire i problemi sotto il tappeto e chiedeva ai malati di vivere la loro condizione nell’ombra, è stata cancellata. Ai nostri giorni molti malati e loro familiari prendono la parola: raccontano e si raccontano. Sotto l’albero frondoso della medicina narrativa i “racconti del dolore” (misery report, in inglese) si accumulano negli scaffali delle librerie e soprattutto nei siti dei social. Ma le narrazioni fluiscono anche dall’esperienza dei curanti. Condivise o no all’ora di cena, premono per trovare una via d’uscita. Uno dei maestri più celebri della medicina narrativa, il neurologo Oliver Sacks, ha dato conto della svolta che ha avuto luogo nella sua vita quando è entrato nell’ospedale del Bronks dove vegetavano i lungodegenti vittime dell’epidemia di encefalite letargica, i protagonisti di Risvegli: “Rimasi affascinato dai miei pazienti, sviluppai per loro un interesse profondo e sentii che raccontare le loro storie era una sorta di missione. Quasi senza esserne consapevole, divenni un narratore di storie proprio in un momento in cui, in medicina, la narrazione s’era quasi estinta” (Oliver Sacks: Gratitudine, Adelphi 2016). Era infatti l’epoca in cui la qualità in medicina si misurava con l’evidence: si riteneva più importante contare che raccontare. Nel periodo che ha fatto seguito la medicina narrativa, nelle sue diverse articolazioni, avrebbe rinnovato la nostra percezione della buona pratica della cura. Fino a diventare, con le Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale (conferenza di consenso promossa dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2014), sinonimo di una metodologia di intervento consapevole che per praticare la medicina ai nostri giorni è necessaria una “specifica competenza comunicativa”. La medicina basata sulla narrazione (Narrative Based Medicine) si affianca alla Evidence Based Medicine: non per vanificare il suo valore, ma per bilanciarlo.In questo variegato scenario si affaccia ora una novità: la narrazione di casi clinici come “approccio innovativo allo studio della bioetica e della deontologia”. Lo propone il libro curato da Paola Gobbi, con la collaborazione di numerose sue colleghe infermiere: Storie di persone, voci di infermieri (McGraw Hill 2020). Una novità libraria che spunta proprio dal periodo buio della pandemia, sia per la sanità che per l’editoria, con una promessa di innovazione. La culla dell’opera è il Laboratorio di Nursing Narrativo, che Paola Gobbi anima a Milano. Possiamo immaginare che per lungo tempo gli infermieri/e coinvolti si siano ritrovati idealmente a cena e abbiano condiviso, insieme a pane e formaggio, anche le storie cliniche che si portavano dietro. Provengono dagli ambiti della cura più diversi: vanno dalle fasi iniziali della vita all’accompagnamento dei morenti, dal rispetto della privacy alle comunicazioni appropriate nel processo di assistenza, dalla sperimentazione clinica all’organizzazione delle cure infermieristiche e al rapporto con altri professionisti, medici in primo luogo. Le narrazioni raccolte – più di una cinquantina – hanno un peso specifico maggiore di quello che accompagna talvolta la semplice condivisione per dar libero sfogo alle emozioni. Sono piuttosto un percorso per accrescere la consapevolezza che il lavoro di cura, se vuol rispondere alle esigenze di qualità morale, si deve confrontare con regole che vanno ben al di là dei “like” e “dislike” dei social. Non basta neppure che le storie siano ben raccontate (e quelle raccolte nel libro lo sono davvero): devono essere ben utilizzate. Ovvero hanno bisogno di un metodo per individuare il percorso che permette di abbinare al comportamento del professionista sanitario aggettivi quali lecito/illecito, accettabile/inaccettabile, corretto/scorretto; e soprattutto buono/cattivo, giusto/ingiusto. Le narrazioni si confrontano esplicitamente con un approccio metodologico che permette di ascendere dalla medicina sicura dal punto di vista delle norme giuridiche a quella eticamente giustificabile (in base ai principi esplicitati dalla bioetica), e da questa alla cura eccellente, che produce una giusta soddisfazione in chi la eroga e in chi la riceve. Tra le narrazioni e le regole etiche e deontologiche individuiamo una felice circolarità. Nessuna subalternità: le narrazioni non sono riportate per illustrare le norme; né queste sono dedotte dalle storie narrate. Sono due percorsi che si intrecciano. Con il vantaggio che la struttura talvolta arida del discorso etico è rivestita della carne viva delle vicende quotidiane. Le norme non appaiono appiccicate forzatamente alla cura, ma ne sono parte costitutiva. Infine un’ultima impressione, forse la più piacevole. Con questo lavoro il corpo della professione infermieristica ci viene incontro dotato di una piena creatività intellettuale. La riassumiamo con l’espressione “empowerment deontologico ed etico”, che fotografa un cambio di passo, avvenuto sulla scena della medicina come nella società intera. Le regole per far bene il loro lavoro gli infermieri non le ricevono passivamente da altri. Sappiamo quante toghe e quante tonache sono ansiose di impartirle. Gli infermieri che si sono confrontati con queste narrazioni sono protagonisti attivi del percorso di consapevolezza etica. Le regole le fanno emergere dalla trama delle narrazioni. Auspichiamo che il loro esempio sia contagioso, così da avere presto qualcosa di analogo da parte dei medici: storie e voci che costruiscano attivamente dall’interno la struttura dell’etica medica, senza lasciarsela prescrivere da agenzie esterne
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