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Anno edizione: 2000
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Credo che ben pochi non abbiano mai ascoltato un brano di musica celtica e che sempre pochi non l’abbiano apprezzato, non siano rimasti impressionati da uno stile melodico che, pur espressione della musicalità di poche identità nazionali, tuttavia trova larghi consensi un po’ in tutto il mondo. Dei Celti, di questo grande popolo, resta al giorno d’oggi ben poco, uno sparuto numero di discendenti concentrato soprattutto all’estremo dell’Europa occidentale, prevalentemente in Irlanda e Scozia. E’ naturale pertanto chiedersi chi erano i Celti che, divisi in tribù, sovente nemiche, occuparono fra il V e il III secolo avanti Cristo larga parte del nostro continente, dalle rive dell’Oceano Atlantico all’Anatolia e che ovviamente furono presenti anche in Italia, dove diedero del filo da torcere a Roma repubblicana. Chi non ha mai sentito parlare dei Galli alzi la mano, perché la figura imponente di questi guerrieri, che usavano come copricapo un elmo con ai lati due corna di toro, sono entrati nell’immaginario collettivo, complici anche i fumetti e le pellicole con protagonista Asterix. Benché i Romani amassero definire gli stranieri come barbari, termine che in epoca odierna ha un significato spregiativo, i Celti erano colti, evoluti, in possesso di tecniche di coltivazione particolarmente efficienti, erano capaci di costruire città, come l’attuale Milano, di coniare monete, di realizzare armi e gioielli di pregevole fattura. I Celti in Italia, che sarebbe improprio definire un libro scritto a quattro mani – e più avanti spiegherò il perché – ha il pregio di fare abbastanza luce sull’insediamento di queste popolazioni nella nostra penisola, che a volte avvenne senza traumi nell’incontro con i popoli che vi dimoravano, in primis gli etruschi, e altre invece furono il risultato di guerre aspre e feroci. Al riguardo memorabili furono gli scontri con Roma che venne addirittura conquistata, evento ricordato negli insegnamenti scolastici con la famosa frase di Brenno, il condottiero dei Galli, che a fronte delle rimostranze dei senatori che pagavano in oro la libertà e che si erano accorti che la bilancia su cui veniva pesato era stata volontariamente starata a loro sfavore, sbottò con un “Guai ai vinti”, buttando la sua spada sul piatto di contrappeso e aumentando così lo sbilanciamento. Poi, dopo numerose guerre, che non si protrassero solo per alcuni anni, ma addirittura per dei secoli, Roma la spuntò e i Galli vennero assoggettati. La particolarità di questo saggio e che i due autori hanno scritto “a solo” ognuno alcune parti dello stesso, e così Venceslas Kruta ha stilato l’Introduzione, il capitolo I, parte del capitolo III (dalla pagina 130 alla 143) parte del IV e del V (rispettivamente, dalla pagina 163 alla 166,e dalla pagina 194 alla 202), nonché l’intera Bibliografia; Valerio Massimo Manfredi, invece, ha scritto il capitolo II e parte dei capitoli III (dalla pagina 101 alla pagina 130), del capitolo IV (dalla pagina 145 alla 163, dalla pagina 166 alla 168) e del capitolo V (dalla pagina 169 alla pagina 194). Si potrebbe pensare che questo modo di procedere abbia avuto influssi negativi sull’opera, ma non è cosi: a fronte di un Kruta che procede con la nota prudenza dello storico esperto e che, pur fornendo notizie assai interessanti, mostra tendenzialmente uno stile accademico che a volte può risultare un po’ greve, c’è l’esposizione più fluente e anche più coinvolgente di Manfredi, storico probabilmente più noto per i suoi romanzi storici. Il libro, comunque, si legge con piacere ed è anche per questo che lo consiglio.
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