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«È sufficiente osservare lo spettacolo della nostra vita nel suo esuberante dispiegarsi e nella sua disciplina implacabile, con le sue aree produttive fumanti e scintillanti di luci, con la fisica e la metafisica del suo traffico, i suoi motori, aeroplani e metropoli brulicanti di gente, per intuire che qui non c’è un solo atomo che non sia al lavoro, e che questo processo delirante è in profondità, il nostro destino. La Mobilitazione totale non è una misura da eseguire, ma qualcosa che si compie da sé, essa è, in guerra come in pace, l’espressione della legge misteriosa e inesorabile a cui ci consegna l’età delle masse e delle macchine. Succede allora che ogni singola vita tende sempre più indiscutibilmente alla condizione del Lavoratore, e che alle guerre dei cavalieri, dei re e dei cittadini succedano le guerre dei lavoratori, guerre della cui struttura razionale e della cui implacabilità il primo grande conflitto del XX secolo ci ha già dato un’idea». Così scriveva Jünger nel 1930, anno di pubblicazione della prima edizione de La mobilitazione totale. Questa visione del mondo sembrerebbe appartenere a un’epoca ormai lontana, consegnata al secolo dei totalitarismi e delle guerre mondiali. Eppure la mobilitazione totale – in una sua versione globale – con l’annullamento del confine tra pace e guerra, la normalizzazione della violenza e la riduzione di ogni cosa – uomo compreso – alle categorie della mera dimensione lavorativa, si impone come una chiave interpretativa sempre più essenziale per comprendere a fondo fenomeni quali l’assenza di senso nel “progresso” tecnico, la normalizzazione del rischio e la crisi della politica. Convizione degli studiosi che hanno collaborato alla stesura del presente volume è che tornare alla mobilitazione totale e riuscire a leggere il senso di questa immagine jüngeriana incentrata sull’assorbimento del lavoro nella violenza, sia un passo necessario per riuscire a porsi in contatto con la crisi della democrazia e per pensare a vie di uscita possibili.
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