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Anno edizione: 2017
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Il lutto non è certo argomento nuovo alla letteratura, ma in questo libro l'autrice lo affronta in chiave non banale. Due genitori si trovano ad affrontare in maniera diversa la dimensione del lutto, a prendere decisioni diverse, ad allontanarsi e a ritrovarsi. Chi pensavano di conoscere tanto da poter affermare di sapere come si sarebbe comportato in una data situazione, forse ha scelto di lasciare dei non detti che alla sua morte generano interrogativi in chi rimane e aggiungono domande anziché risposte, nonostante l'umanissimo, quanto vano, tentativo da parte di chi resta di cercarle queste risposte.
Il romanzo parla di una coppia newyorkese di italiani che affronta il lutto del figlio, morto suicida. La storia parte 5 anni dopo la vicenda, alla quale i genitori non riescono a trovare una motivazione. Una novità, portata alla luce dalla nuora che riordinando ha trovato una lettera risalente a diversi anni prima, rigetta tutti in un dolore antico ma allo stesso tempo nuovo. Il padre e la madre affrontano diversamente la vicenda e ci forniscono due punti di vista che però hanno in comune un dolore straziante, che a tratti la scrittrice riesce a trasmettere davvero bene, suscitando nel lettore un vero senso di disagio.
Iniziato con scetticismo e terminato maledicendo la giuria del Premio Strega che non lo ha fatto entrare in cinquina (nulla da obiettare contro i finalisti, su 5 ne ho letti due e ho adorato "Le otto montagne", che reputo vincitore stra meritato). Tornando a questo libro, è, a mio parere, da "maneggiare con cautela"; affronta un tema (più di uno, in realtà) che è allo stesso tempo delicato e abusato: l'elaborazione del lutto, la morte di un figlio, il dolore dei genitori, il cercare di dare un senso a cose che non ne hanno perché non tutto ha senso nella vita, per quanto duro sia da accettare... temi di una delicatezza che è fragilità, ma anche di facile presa sulla coscienza dei lettori, che generano facilmente empatia. La sfida, a mio giudizio, era non tanto raccontare con equilibrio (scrittura asettica, chirurgica... sì, tutto vero, tutto giusto ma sempre fino a un certo punto) quanto descrivere il dolore nel modo più preciso possibile: una sintesi di pieni (e piene) e di vuoti, di silenzi e di parole, di strati che si sovrappongono ma non si fondono. Come Larissa e Michele: complementi che non completano. Perché il dolore no ha mai una forma completa.
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