In L’occhio della mente, Oliver Sacks torna a fare ciò che gli riesce meglio: intrecciare con straordinaria sensibilità il rigore della saggistica neurologica con le storie profondamente umane dei suoi pazienti. I casi clinici che racconta non sono mai solo anomalie da studiare, ma percorsi di vita, esperienze segnate dalla fragilità e dalla resilienza. Come Lilian Kallir, una pianista talentuosa che, a causa di una rara condizione neurologica, si ritrova improvvisamente incapace di leggere la musica o persino di distinguere un violino da un banjo. Oppure Sue Barry, diventata neurobiologa pur convivendo con uno strabismo che le ha negato per anni la percezione tridimensionale del mondo. Storie come queste, pur toccando vertici drammatici, non scivolano mai nel patetico: al contrario, Sacks riesce a mostrarci come la mente umana, anche quando ferita, sappia attivare risorse imprevedibili per ridefinire se stessa. Non mancano spunti autobiografici, come quando l'autore riflette con lucidità e sincerità sulla propria prosopagnosia o sulla lotta contro un melanoma oculare, condividendo col lettore non solo i dati medici ma anche le sue emozioni a riguardo. Questo libro ricorda da vicino L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, uno dei suoi titoli più noti e da me il più amato, per l’equilibrio perfetto tra il fascino delle neuroscienze e la profonda empatia verso chi vive ogni giorno con una mente “diversa”. Sacks non racconta semplici patologie: racconta persone, con le loro personali sfide, le loro risorse e la loro straordinaria volontà di vivere.
L' occhio della mente
Lilian Kallir è una brillante pianista che predilige Mozart: una sera, allorché deve affrontare il "Concerto n. 21" (quello col famoso Andante), la partitura diventa di colpo un intrico di segni incomprensibili; è l’esordio di una neuropatologia che le impedirà, se non di scrivere, quanto meno di leggere e altererà la sua percezione sino a farle confondere un violino con un banjo o un rasoio con una penna. Sue Barry è riuscita a diventare neurobiologa nonostante una menomazione invalidante: una forma di strabismo che inibisce la visione stereoscopica, sicché gli occhi sono attivi uno per volta, in alternanza, senza mai potersi coordinare; per lei, la profondità e la terza dimensione sono categorie puramente immaginarie. Sono solo due dei casi raccontati e analizzati in questo nuovo libro di Oliver Sacks: storie di amputazioni e deformazioni affettivo-cognitive che sembrano sfociare in drammi senza rimedio. E ancora una volta Sacks mostra come ogni ferita attivi inaspettate strategie adattative, una impensabile capacità di conservare o ridisegnare ciò che viene esperito. Ma per il lettore la vera sorpresa consisterà nel vedere tali dinamiche confermate dall’esperienza personale dello stesso Sacks. Scrutandosi con freddezza clinica, ma senza il timore di rivelare le oscillazioni dei suoi stati d’animo, il neurologo-scienziato parla infatti sia della prosopagnosia di cui è affetto (l’incapacità di riconoscere i volti), sia dell’odissea legata a un melanoma maligno all’occhio destro, i cui sintomi si materializzano un sabato del dicembre 2005, al cinema, sotto forma di una macchia dai contorni iridescenti. Nel rivivere le fantasmagorie percettive scatenate dal tumore, Sacks prosegue così la sua esplorazione del versante creativo di ogni malattia, che in questo caso si manifesta nelle infinite modalità con cui ogni occhio e ogni mente inventano e reinventano l’inafferrabile vastità del mondo esterno.
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Pagine_e_inchiostro 30 aprile 2025L’occhio della mente
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