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Anno edizione: 2022
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«Un occidente prigioniero, di Milan Kundera, è un libro con poche pagine, ma sorprendente nei concetti espressi. Un libro che arriva a noi partendo da lontano, e grazie agli uffici di Pinotti (e della casa editrice Adelphi) aggiunge parole necessarie a un momento storico di grande incertezza. [...] La tesi sostenuta con veemenza e passione da Kundera è che un'Europa che rinunci alla propria componente culturale eterogenea sarà destinata a restare sempre monca, mutilata della ricchezza essenziale che le differenze culturali e storiche delle proprie nazioni comportano.». - Maremosso
Nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Solženicyn sulla censura nell'Urss, si tiene in Cecoslovacchia il IV Congresso dell'Unione degli scrittori. Un congresso diverso da tutti i precedenti – memorabile. Ad aprire i lavori, con un discorso di un'audacia limpida e pacata, è Milan Kundera, allora già autore di successo. Se si guarda al destino della giovane nazione ceca, e più in generale delle «piccole nazioni», appare evidente – dichiara Kundera – che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei «vandali», gli ideologi del regime. La rottura fra scrittori e potere è consumata, e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema avesse accelerato il disfacimento della struttura politica. A questo discorso, che segna un'epoca, si ricollega un intervento del 1983, destinato a «rimodellare la mappa mentale dell'Europa» prima del 1989. Con una veemenza che il nitore argomentativo non riesce a occultare, Kundera accusa l'Occidente di avere assistito inerte alla sparizione del suo estremo lembo, essenziale crogiolo culturale. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all'Europa appartengono a tutti gli effetti, e che fra il 1956 e il 1970 hanno dato vita a grandiose rivolte, sorrette dal «connubio di cultura e vita, creazione e popolo», non sono infatti agli occhi dell'Occidente che una parte del blocco sovietico. Una «visione centroeuropea del mondo», quella qui proposta, che oggi appare ancora più preziosa e illuminante.
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Inizia così il mio viaggio "adelphiano", con il n°776 della Piccola Biblioteca Adelphi, un libro dal contenuto devastante che riecheggia ancora nei tempi a guardia e testimonianza di quello che fu, nel lontano 1967, all'alba della futura Primavera di Praga e al crepuscolo di quell'ideale di sogno e futuro occidentale dei popoli che io definisco "di mezzo"; quella Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria che per decenni lottarono per liberarsi dal giogo sovietico ma soprattutto dall'indifferenza di quell'Occidente di cui si sentivano, almeno culturalmente e storicamente, di fare parte. Kundera prende parola al IV Congresso dell’Unione degli scrittori a Praga e lascia un'impronta indelebile non solo in chi lo ascolta, ma soprattutto nelle menti e nel futuro delle genti d'Europa, sprofondando nel cuore di tutti quegli scrittori e giovani cecoslovacchi che accolsero così una rivendicazione non solo geografica di quel lembo di terra all'estremo occidente del blocco sovietico, ma soprattutto la sua valenza culturale e identitaria, la cui storia e evoluzione non solo forma i popoli ma me determina il progresso. Kundera scrive che "la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei «vandali», gli ideologi del regime." - Parole che sancirono la rottura definitiva tra gli scrittori e il regime, con un atto di ribellione che risuonerà nei cannoni solo dieci mesi dopo nella piazza della Città Vecchia, tra studenti e operai. Memorie di un Europa di là da venire, i cui valori trascinavano già la Storia fuori dagli anni sessanta. Ogni tanto riapro questo libro solo per gustarne i passaggi e provare l'ebbrezza di come le parole possano talvolta cambiare le sorti e il destino delle nazioni, a patto che ci siano cuori disposti ad ascoltarle, ma soprattutto per non dimenticare mai ciò che fu e che determina, troppo spesso, ciò che è.
bello
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