Gli orsi non esistono (2022) - l'ultimo lavoro del regista iraniano Panahi, a cui è stato prima negato il diritto di girare film (oltre che di lasciare il paese e di avere contatti con i media) per vent'anni tramutatisi in sei anni di reclusione la scorsa estate, descrive una duplice storia, se non triplice, in parallelo. Siamo in Turchia ma anche in Iran, in una zona grigia dove vige la legge del contrabbando ma anche quella della sacra Sharia, dove si può comprare un documento falso per espatriare ma occorre giurare sul Corano per fugare i dubbi su una falsa testimonianza. Una donna riceve dal marito un passaporto rubato ad una turista inglese che le servirà per fuggire dal paese, ma la moglie rifiuta l'offerta che significherebbe lasciare l'uomo che ama. Ciak, scena 1: apprendiamo che si tratta di un docufilm che il regista sta girando, o meglio facendo girare per interposta persona al di là dal confine, a pochi chilometri dal villaggio iraniano dove si è rifugiato. E così comincia una storia picaresca che vede coinvolte due coppie (la prima "turca" e la seconda iraniana) le cui vite si legheranno a doppio nodo a quella di Panahi. In una pellicola che diventa metacinema, in cui il vero si mescola abilmente alla finzione, lo spettatore è chiamato ad assistere impotente alla deriva che capziose consuetudini semireligiose impongono al cineasta di Teheran. E, come lui, restiamo ammutoliti davanti allo schermo.
