“Persuasione” è un romanzo scritto con la consueta grazia di Jane Austen: lo stile è raffinato, ricco di sfumature psicologiche e osservazioni sociali pungenti. Tuttavia, per quanto la penna dell’autrice sia impeccabile, la lettura procede con una lentezza che a tratti sfiora l’immobilità. Gran parte della narrazione è appesantita da dialoghi prolissi, spesso inverosimili, nei quali i personaggi parlano a lungo senza mai arrivare al punto.
La trama, di per sé, è estremamente semplice: due innamorati separati da pregiudizi sociali – lui, non abbastanza ricco; lei, troppo facilmente condizionabile – che si ritrovano solo quando il giovane, diventato improvvisamente “degno” grazie al successo economico, riappare nella sua vita. Tutto il resto sembra un vasto contorno di figure mediocri, spesso tratteggiate come parassiti dell’aristocrazia, ossessionati dall’apparenza, dall’etichetta e dalla convenienza matrimoniale.
Questa lentezza non è un difetto tecnico, ma quasi fisiologica: il romanzo riflette un mondo, quello dell’aristocrazia inglese, che viveva in una bolla autoreferenziale, dove le giornate erano scandite da visite, chiacchiere, passeggiate e giudizi di classe. Avendo letto e visto altre opere ambientate nell’epoca vittoriana, riconosco in Austen un realismo fedele… ed è proprio questo realismo che, personalmente, mi risulta difficile da digerire. È un mondo che non mi piace, e questa antipatia finisce per colorare il mio giudizio.
L’unico vero sussulto l’ho avuto a pagina 155: Lady Russell che consiglia ad Anne chi frequentare… non persone intelligenti, interessanti o colte, ma individui dell’“alta società”, cioè altri parassiti privilegiati. Una scena che mi ha spinto a riflettere su quanto poco sia cambiato: quell’1% che oggi detiene quasi metà della ricchezza mondiale vive, in fondo, con la stessa logica endogamica dell’Ottocento.
“Persuasione” resta un classico importante, ma per me è stato soprattutto una lettura ideale per conciliare il sonno.
