Indice
Le prime pagine del libro
Nel secolo scorso non esistevano i talent televisivi e se volevi cimentarti con qualche forma d’arte dovevi andarteli a cercare da solo, gli insegnanti bravi. I maestri. Quel pomeriggio, il 4 ottobre del 1986, il grande saggio della ricerca teatrale Jerzy Grotowski avrebbe ricevuto la cittadinanza onoraria del Comune di Pontedera. Se il mio maestro di teatro Eugenio Barba era in qualche modo per tutti noi un “papà artistico”, “Grot” – così lo chiamavamo nell’ambiente del teatro di gruppo – era senz’altro il “nonno”.
Vivevo e lavoravo lì a Pontedera come attore già da sei anni e per niente al mondo mi sarei perso un discorso del nostro magnifico, geniale, rivoluzionario “Grot”. La sala era stracolma di attori, giornalisti, studiosi, autorità: il pubblico delle grandi occasioni. Grotowski indossava, in ogni stagione, una specie di poncho di lana che, insieme agli occhiali spessi e alla barba incolta, bene si addiceva alla sua fama di guru del teatro di ricerca internazionale. Eravamo tanti, giovani e pieni di ideali. Forse puzzavamo di sudore, ma eravamo sinceri. A Pontedera era sorto un grande centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale e, oltre a Grotowski e Barba, ci erano passati Julian Beck e Judith Malina del Living Theatre, Dario Fo, Anatolij Vasil’ev, insomma il gotha del teatro mondiale di ricerca, il Terzo Teatro.
I nostri genitori cresciuti negli anni di una guerra mondiale avevano ricostruito il Paese e volevano cambiare il mondo con il lavoro. Noi sentivamo nostra la grande missione di cambiarlo con l’arte del teatro. Era per questo che, appena finita la maturità, avevo abbandonato Roma, famiglia e amici e mi ero messo a viaggiare per l’Europa insieme al Piccolo Teatro di Pontedera.
Grotowski iniziò il discorso di ringraziamento in francese, affermando che esistono due tipi di cultura: una fatta di libri, università, pinacoteche e musei, opere che si vendono e si comprano; l’altra è la vita stessa.
Negli anni Ottanta si dibatteva molto sulla funzione sociale dell’artista. Nelle discussioni con Silvia e Luisa, due splendide creature omozigote, nella nostra casa in affitto nel bosco di Treggiaia, tante volte avevamo disquisito sul senso del lavoro dell’attore. Se lo fai come mestiere devi essere disposto a scendere a compromessi. Se lo fai perché non ne puoi fare a meno allora è la tua vita che deve diventare un’opera d’arte.
Dopo alcuni mesi scoprimmo che avevamo dei parenti in comune. Ci sono relazioni umane che, per la profondità che manifestano, vanno al di là della ragione.
Grotowski continuò dicendo che ognuno ha il teatro che si merita; c’è chi riconosce se stesso nelle stagioni dei teatri stabili, chi ama le operette, le commedie musicali, il circo o lo spettacolo del calcio. Lui per tutta la vita aveva cercato altro, arrivando a rivoluzionare il mestiere dell’attore e la sua funzione antropologica. Rispondendo alla domanda su chi considerasse suoi “discepoli” tra i gruppi del Terzo Teatro, Grotowski si espresse più o meno così:
«Io non riconosco discepoli, riconosco solo compagni d’arme, cioè coloro che combattono insieme a me per un mondo migliore.»
Nonno Grot per gran parte della sua vita aveva dovuto lottare contro le limitazioni e la censura del regime polacco. In anni di Guerra Fredda, questo significava attese eterne per ottenere i visti per lui e tutti gli attori del suo Teatr Laboratorium, pagando da intellettuale libero il rifiuto di aderire al totalitarismo culturale sovietico.
Grot iniziò poi a parlare dell’essenza della vita e del teatro. E fece un esempio:
«A scuola c’è una classe di bambini che sta svolgendo il compito di matematica. È una giornata di sole e il maestro, annoiato, passa il tempo seduto alla cattedra.
Le tapparelle sono abbassate, raggi di luce attraversano l’aula.
A un certo punto si stacca dal soffitto un piccolo frammento di intonaco, e cade lentamente verso terra. Se ne accorge un solo studente, un attimo prima assorto nei suoi conti, e nota che la scaglia lattescente, attraversando lo spazio, ondeggia e sposta con leggerezza il pulviscolo atmosferico. Passano molti anni e lo stesso studente, ormai diventato un uomo, si trova nel suo ufficio, alle prese con le scartoffie ministeriali. Forse ha da poco ricevuto conferma del suo piano ferie, quando improvvisamente si blocca con lo sguardo perso nel vuoto. Senza pensieri, la sua attenzione si fissa sui raggi di sole che trapassano la tapparella socchiusa della finestra.
Ricorda nei minimi dettagli quel giorno di tanti anni prima, quando a scuola, durante un compito di matematica, per un istante, si era distratto dalle operazioni. Nella sua memoria riaffiora il rumore delle penne sui fogli, l’atmosfera ovattata e sospesa di quel momento. Dove saranno adesso i miei compagni? Ricorda quello che è successo in tutti gli anni trascorsi e comprende in un istante chi è e come è arrivato a quel punto della sua vita. Per lui, quel singolo attimo verrà percepito e ricordato come l’essenza della vita.»
Dunque, secondo Grotowski, l’essenza della vita, per un attore in scena, è la gestione emotiva dell’attimo presente, quel “qui e ora” tanto caro agli antichi come hic et nunc.
Tornai a casa con la macchina di Silvia, una Dyane color fango secco con la leva del cambio sulla plancia; guardavo gli ulivi e avevo la testa piena di teorie teatrali da mettere in pratica. Facile a dirsi, meno facile a farsi. Io, di natura, sono un “diversamente emotivo” e soffro di non pochi imbarazzi nell’esibirmi in pubblico. Solo con un allenamento fisico quotidiano e mesi di prove ero riuscito a sentirmi almeno un po’ a mio agio sulla scena.
Seguendo l’indicazione del mio regista Roberto Bacci, avevo cominciato a lavorare sul personaggio di Alëša Karamazov e mi ero cucito un saio con la tela di un sacco. Mi ero documentato sulle abitudini quotidiane dei giovani monaci ortodossi. Studiavo molto e dormivo poco per trovare materiali, e provavo i gesti con i quali costruire il personaggio. Ricordo ancora la faccia basita di tre taglialegna che una mattina mi avevano visto attraversare il bosco recitando giaculatorie in simil-russo. Spensero le motoseghe e rimasero in silenzio, mentre io, alzata la tonaca, mi davo alla fuga correndo lungo il sentiero sterrato con i sandali e il cuore in gola. Per lo meno un risultato artistico lo avevo ottenuto: mi ero graffiato piedi e gambe. I graffi erano veri.
Leggendo e documentandomi, avevo scoperto che intorno al XIII secolo era in auge presso i cristiani d’Oriente una preghiera ripetuta chiamata esicasmo, una pratica ascetica nata in realtà nel IV secolo d.C. che serviva a trovare la pace interiore, l’unione con Dio e l’armonia col Creato. Una pratica simile esisteva anche nel mondo musulmano, e non solo. Strano che nello stesso periodo esistesse una forma di meditazione analoga, pur con parole diverse, in culture religiose differenti. L’unica esperienza che avevo in tal senso era la preghiera del rosario che nel mese di maggio i miei genitori pretendevano di recitare, con tanto di litanie lauretane in latino, tutti i giorni dopo cena davanti a una statua della Madonna che la parrocchia di San Felice da Cantalice a Centocelle faceva girare di casa in casa dentro un austero e liso cofanetto ricoperto di velluto scuro.
Dal punto vista antropologico era interessante scoprire come religioni che si erano fatte la guerra a lungo, in un determinato momento storico pregassero sostanzialmente nello stesso modo. Tra l’altro, avevo letto che un paio di secoli più tardi, pregando così, alcuni monaci come Andrej Rublëv, il grande pittore di icone, avevano tratto ispirazione per le loro immagini, diventate esempio di perfezione. Pregando, avevano delle visioni, che poi cercavano di riprodurre dipingendole sulla tavola di legno.
Nella ricerca della verità dell’attore in scena, mi ero nutrito per anni delle teorie di Grotowski che contrapponevano l’“attore-cortigiana”, che recita per avere approvazione, soldi e successo, all’“attore-santo”, che dona se stesso.
Avevo anche provato a superare certi blocchi e una naturale timidezza che talvolta mi rendeva ridicolo, lavorando sui principi della trance, studiando il teatro balinese e i tamburi del tarantismo. In quegli anni, dedicati alla sperimentazione teatrale, andava molto di moda riscoprire le radici delle culture.
Ero alla continua ricerca di un equilibrio che non avevo: mi sentivo sempre inadeguato. Mi portavo dietro una leggera tristezza, la piccola punta di malinconia che caratterizza quel periodo di merda che viene chiamato adolescenza. Uno dei motivi era l’avere realizzato di essere gay. Venendo da una famiglia di tradizione cattolica, ero pieno di sensi di colpa. In quegli anni la tendenza era quella di reprimersi e nascondersi seguendo il pensiero ipocritamente diffuso del “se lo dico, magari, non mi vogliono più bene”.
Non c’era niente, non c’era un clima, non c’erano locali, non c’erano gay street, non c’era nella società italiana nulla di rassicurante che potesse aiutare un giovane insicuro come me in cerca della sua identità.
Ricordo di quel periodo la grande fatica nel gestire il mio personaggio in relazione all’ambiente sociale. La mia identità ne risultava frantumata. C’era un Antonello figlio, un Antonello con gli amici, uno di circostanza, uno per il sesso. Era così tanto il bisogno di ricevere approvazione che per anni ho cercato di diventare quello che il mio interlocutore desiderava. Il lavoro dell’attore rappresentava, a quel punto, una specie di zona franca, una palestra per conoscere me stesso, una sorta di terapia e un laboratorio di riappropriazione.
La religione era diventata, invece, qualcosa che apparteneva ormai alla cultura degli antenati, un insieme di forme ripetute che non portano nessun effetto concreto alla vita di tutti i giorni. Se porgi l’altra guancia, sembri un debole, un po’ un frescone, uno che non ha le palle per reagire. In questo contesto avevo accumulato frustrazioni, nevrosi e malesseri, e il fatto di lavorarci sopra con il teatro mi consentiva quantomeno di sottopormi a una specie di utilissima autoanalisi.
Osservavo continuamente la mia mente, al limite dell’esaurimento, per superare blocchi, paure e complessi. Se sei un giovane in cerca di approvazione non è semplice adocchiare e prendere al volo le occasioni della vita. Per conquistare uno spazio, se non hai santi in Paradiso, tocca sgomitare come al tavolo del buffet di un self service “All you can eat”, dove, come è noto a tutti, non esiste, e forse non è neanche possibile, nessuna forma di civiltà.
Con la testa così piena di sogni, ingenue aspettative e speranze, tornai nella capitale e per tre lunghi anni cercai di sbarcare il lunario facendo improbabili quanto inutili provini di teatro, cinema e pubblicità.
Stavo cercando di capire chi ero e che posto avevo nel mondo.