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C'era 49 volte un paese - Filippo Golia - copertina
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C'era 49 volte un paese

Descrizione


Un paese che aveva dimenticato grazia e bellezza per mettersi in fila davanti al potere, un paese di cattivi schierati contro i finti buoni, di treni miracolosamente immobili e di rabbie sempre sul punto di sfogarsi, un paese che aveva smarrito il buon senso degli altri e la propria lingua, un paese angusto. Un paese dove per strada potevi incontrare il gatto, la volpe, i gattopardi e tanti lupi. Un paese da favola, per 49 volte!
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Dettagli

2018
25 gennaio 2018
112 p.
9788872741658

Valutazioni e recensioni

Recensioni: 4/5

C’era 49 Volte un paese Filippo Golia Con tono dolce e calmo, più di mezzo secolo fa, in un qualunque paese d’Italia, grande o piccolo, la nonna intonando una lenta cantilena cominciava: “C’era una volta ….”. Il bambino, che ascoltava in silenzio, con la mente cominciava il suo viaggio nel tempo: andava in una epoca di tanti tanti anni prima ed in un luogo quasi mai ben definito, ma sempre affascinante e magico, sia perché era collocato in un tempo assai lontano sia perché aveva connotazioni sfumate che consentivano libero sfogo alla fantasia. Di conseguenza poco avevano in comune con la realtà di tutti i giorni. In questo “mondo di favola” il bambino si trovava magicamente alle prese con personaggi molto lontani dalla quotidianità, ma soprattutto molto lontani dalla sua esperienza, da suo vissuto. In realtà quei personaggi erano la proposizione di modelli ai quali si pensava fosse giusto indirizzare la mente e la personalità che si stava formando. Oggi non sono più di moda né le favole né la volontà di indirizzare i giovani verso un qualche modello, perché tutti giudicati negativi, chi per un motivo chi per un altro. Le favole ed i modelli non esistono più …. forse …. E’ molto singolare allora invitare il lettore, per 49 volte a avviare il cammino mentale verso una favola. Perché mai? L’incipit è quello classico, di tutte le favole: “C’era una volta …” e noi ci predisponiamo ad “ascoltare” una storia di tanto tempo fa. Invece favola dopo favola, racconto dopo racconto, ogni volta ci troviamo con storie e luoghi che potrebbero essere di ieri o di pochi mesi prima, al massimo di qualche anno fa. Ne rimaniamo sorpresi: Che razza di favola è una che si riferisce a poco tempo fa? Non solo: i fatti che si narrano sono come quelli che stiamo vivendo ogni giorno. Veramente strane queste favole! Per chi ha avuto occasione di riflettere sulle favole e su ciò che c’è sotto le apparenze, c’è ancora un dubbio: ma i modelli (quelli positivi, soprattutto) che fine hanno fatto? La fatina buona, il principe azzurro, il re buono … tutti scomparsi! Non ce n’è la minima traccia. Possiamo ritrovare, sotto mentite spoglie, il Gatto e la Volpe, Lucignolo, Mangiafuoco, ma il Grillo parlante? La fatina dai Capelli Turchini? Geppetto? Nessuno! Tutti scomparsi! Allora è inutile mentirsi: qui delle favole c’è ben poco. Allora cosa c’è? C’è la malinconia, la tristezza, il sorriso amaro di chi vede un paese (lasciatemi dire: il Proprio Paese) che va in malora. Si sorride, e tanto. Ma a denti stretti. Con la rabbia di pensare che un Paese bellissimo, dove si potrebbe vivere in armonia con gli uomini e con l’ambiente, è ridotto ad un coacervo di individui egoisti ed ottusi. In quei 49 luoghi, che sono evidentemente sempre lo stesso luogo, non c’è spazio per l’intelligenza: cioè la volontà di saper leggere gli avvenimenti e le situazioni. Non c’è spazio per la legalità: cioè l’utilizzo delle norme per garantire pari dignità e diritti. Non c’è spazio per la fratellanza: cioè la disponibilità verso l’altro utilizzando il buon senso rifiutando l’ipocrisia e l’opportunismo. Proprio per questo la verità non può essere detta, in quel paese, beninteso! … forse... Le favole, tutte brevi, alcune brevissime, descrivono la vita di una comunità che, anche se non detto, si evince piccola. Accadono molti eventi che si connotano tutti come vere e proprie vicissitudini. Adeguarsi alla modernità, affrontare il cambiamento, gestire una situazione particolare, tutto diventa problematico. C’è sullo sfondo un sistema indefinito, dove è impossibile identificare un qualche responsabile, che gestisce il potere. Quello che si percepisce, si verifica nei fatti, quasi si tocca con mano, è una burocrazia soffocante, ma chi sia responsabile del disservizio del momento resta un mistero inestricabile. Anche chi ha le chiavi in mano, e di fatto ha il potere, è anonimamente in fila come tutti gli altri. Come tutti gli altri nell’ombra. Nessuno è visibile anche se tutti aspirano ad una visibilità, purché sia fine a se stessa e non implichi alcuna responsabilità. C’è una nostalgica memoria del passato, ma serve solo ad alimentare altro malcontento che mai si traduce in azione. Il potere è gestito nell’ombra, in silenzio, senza mai apparire. Colpisce soprattutto chi non è allineato, chi ha un sussulto e vorrebbe ribellarsi anche solo non rispettando gli schieramenti o le gerarchie. Golia racconta con un leggero sorriso, con ironia, ma sotto sotto è furioso. Si avverte la rabbia di sentirsi addosso le catene del cinismo, del camaleontismo, dell’opportunismo, della gestione del potere fine a se stesso. La delusione che la bellezza, non quella puramente estetica, quella a tutto tondo che coinvolge l’anima e il corpo, la mente e il cuore, è dimenticata, lontana, irraggiungibile. Il servilismo, l’autoumiliazione, l’ipocrisia sono gli unici strumenti utili a sopravvivere per non essere stritolati dal sistema. Fuori dal tempo, queste “49 favole” ci consegnano una garbata ironia, una educata protesta, sussurrata, mai urlata, la delusione per quello che potremmo essere e che non vogliamo essere, perché costa. Costa a ogni singolo abitante, a ciascuno personalmente. Un costo che non può essere condiviso o “nascosto”. Costa in termini di impegno, di tempo, di fatica, di rinuncia. Costi che l’egoismo, non solo di oggi, e la voglia di “, emergere”, questa sì soprattutto di oggi, ci impediscono di “pagare”. Si era nel 1878, l’impero Turco era crollato, i Balcani venivano spartiti fra le grandi potenze. Alle richieste dell’Italia Bismarck, « Questi italiani – disse a Vienna – hanno un magnifico appetito, ma pessimi denti.» All’indomani dell’Unità di Italia sembra che Massimo d'Azeglio, che era stato Primo Ministro del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852, abbia avuto a dire “Abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo fare gli Italiani”.Considerata la levatura morale della persona è molto probabile sia corretta l’interpretazione che vorrebbe che D’Azeglio intendesse dire con "fare gli italiani": liberarli da vizi quali indisciplina, irresponsabilità, pusillanimità e disonestà (vizi che, come molti patrioti del Risorgimento, ritiene essere alle radici del declino dell'Italia a partire dal Rinascimento) ed instillare in loro ciò che egli chiamava "doti virili". Winston Churchill (1874 – 1965) disse « Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre » Questo eravamo e questo, purtroppo, siamo rimasti.

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