L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
Cliccando su “Conferma” dichiari che il contenuto da te inserito è conforme alle Condizioni Generali d’Uso del Sito ed alle Linee Guida sui Contenuti Vietati. Puoi rileggere e modificare e successivamente confermare il tuo contenuto. Tra poche ore lo troverai online (in caso contrario verifica la conformità del contenuto alle policy del Sito).
Grazie per la tua recensione!
Tra poche ore la vedrai online (in caso contrario verifica la conformità del testo alle nostre linee guida). Dopo la pubblicazione per te +4 punti
Tutti i formati ed edizioni
Premi
2007 - Nastro d'Argento - Miglior attore non protagonista - Haber Alessandro
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Deserto della Libia, 1940. In piena Seconda Guerra Mondiale la trentunesima sezione sanità dell’esercito italiano si accampa in attesa degli eventi. In una mescolanza di dialetti e caratteri tra i più disparati ciò che pare emergere è la mancanza degli affetti familiari e al tempo stesso la voglia di stare lontano dalla battaglia. La truppa è capitanata dal Maggiore Strucchi, un timido intellettuale che trascorre il tempo a scrivere alla moglie, fingendo di redigere rapporti, e che incornicia ogni sua affermazione rivolgendosi agli interlocutori con un PerIlBeneCheTiVoglio, a sottolineare il suo animo tanto placido da sentirsi fuori luogo in quel contesto bellico. Tra i camerati c’è il giovane tenente Salvi che, al contrario degli altri, è partito volontario, prima di terminare i suoi studi in oculistica; a convincerlo a lanciarsi in questa avventura non è stata tanto la voglia di diffondere l’ideologia fascista o la supremazia della razza italica quanto l’amore per i viaggi e per la conoscenza degli altri paesi che in ogni momento approfitta per immortalare con la sua macchina fotografica. Ad accogliere in terra africana la stravagante “armata” c’è Padre Simeone, un frate burbero e moralista che conosce bene gli indigeni perché cresciuto e vissuto come missionario in quel paese dove è riuscito con le sue mani a costruire una scuola per i bambini. Grazie all’intercessione tanto opportunista quanto involontaria del frate la diffidenza della gente del posto nei confronti degli occupanti va pian piano scemando, almeno fino a quando i nostri non vengono a contatto con comportamenti e tradizioni locali che, lontane dalla loro concezione di vita, fanno fatica o preferiscono non rispettare. Quella che a detta del Duce doveva essere una guerra lampo con una permanenza di al massimo tre mesi in terra africana, diventa per la trentunesima sezione sanità un calvario prima di tutto psicologico per le psicosi e le manie di ognuno dei componenti la truppa alle prese con le notizie che arrivano dall’Italia, poi, con l’avanzare dell’esercito britannico, la situazione diventa complicata e fisicamente pericolosa, e la battaglia arriva inaspettata a colpire alcuni di loro, tra l’inumana perfidia dell’altezzoso “alleato” nazista e l’inopportuno quanto inutile orgoglio dei generali fascisti attenti a non confondere strategici ripiegamenti con vili fughe, e desiderosi di vedere sorgere nel deserto cimiteri da riempire simbolicamente con valorosi corpi sacrificati per la Patria. Sette anni dopo “Panni sporchi”, il film con cui aveva chiuso il secolo scorso, mentre qualcuno già diceva che oramai non c’era più l’età, la forza e la voglia di mettersi ancora dietro la macchina da presa, l’1 dicembre del 2006, con l’uscita de “Le rose del deserto”, Mario Monicelli dimostra non solo di essere abile più che mai ma che, a 91 anni suonati, non esisteva in Italia miglior direttore di commedia. Il congedo cinematografico del maestro toscano rappresentato da quest’opera è pura commedia all’italiana, un film che non ha una vera e propria storia, non c’è alcun intrigo perché come dice Monicelli “gli intrighi servono solo quando non si sa raccontare una storia”. Personaggi diversissimi con pensieri comuni nati dalla condizione in cui sono obbligati a trovarsi; maschere italiane che solo negli anni d’oro avevamo visto disegnate così magistralmente; risate amare e grasse che rincuorano per la possibilità di fare ancora un cinema del genere: non c’è bisogno della volgarità, del falso perbenismo, del tormentone, della bieca presa in giro, né tantomeno di compiacere il pubblico con parodie generazionali per farlo divertire. Una serie di episodi a fare da collante tra i vari commilitoni alle prese prima con l’accampamento, poi con il frate francescano che si unisce a loro, poi con la popolazione africana, poi con i nazisti e gli irriducibili fascisti, e sullo sfondo un deserto e un’atmosfera da Mille e una notte dal fascino misterioso con una guerra che incombe e pare tanto lontana da colpire in maniera inaspettata. Prendendo spunto dai testi di Mario Tobino (il deserto della Libia), viareggino come lui, e di Giancarlo Fusco (Le rose del ventennio), Monicelli dà vita ad una sceneggiatura brillante, cesellata da Alessandro Bencivenni e Domenico Saverni, che, nonostante racconti un’epoca lontana, suona attuale vuoi per alcune espressioni purtroppo sentite e risentite negli ultimi anni (“siamo venuti qui a portare democrazia e benessere”) vuoi per quell’atteggiamento tipicamente antieroico degli italiani, tratteggiato in molti dei suoi più grandi film (I compagni – I soliti ignoti – Amici miei) e principalmente nel suo capolavoro, “La grande guerra”, che con “Le rose del deserto” ha in comune non solo l’ambientazione bellica ma la descrizione meravigliosa del carattere del nostro popolo, tutt’altro che battagliero ma all’occorrenza leale, solidale e pronto al sacrificio. L’elogio al maestro Monicelli potrebbe non avere termine qualora si volesse ampliare il discorso a tutta la sua carriera, meritevole di spazio ben più ampio di poche righe all’interno di una recensione; quindi altro non resta che rammaricarsi del fatto che questa rimarrà l’ultima opera del regista, e sottolineare la scelta del cast da lui effettuata per “Le rose del deserto” e naturalmente lodare gli interpreti in questione: Alessandro Haber, al quinto film con Monicelli, nel ruolo del poetico e innamorato Maggiore Strucchi dimostra di essere un caratterista, reso protagonista in questa pellicola, capace di cambiare registro interpretativo, anche se il meglio riesce a darlo nella parte finale in cui torna lunatico e nevrotico più che mai; Giorgio Pasotti, forse impacciato più del necessario nel suo Tenente Salvi, deve fare i conti per la prima volta con un regista vecchio stampo e per questo la sua bravura è messa alla prova anche per l’abitudine alla commedia di stile, per così dire, “mucciniano”; ma su tutti spicca Michele Placido che, nelle vesti di Frà Simeone, conquista la scena facendolo da comprimario, non rubando spazio al protagonista ma esaltando con la sua verve tutte le altre interpretazioni, in una sublime prova che lo porta a disegnare un personaggio che pare esattamente l’alter ego di Mario Monicelli con la sua ironia pungente, con il cinismo spassoso, con la severa familiarità, con la sua genialità .
Due ipotesi per cui le 'rose del deserto' sono i soldati italiani in Libia. Perchè, come le pietre levigate dal vento, sono sottoposti ad incessante logorio senza potersi opporre in alcun modo; in maniera più poetica invece si possono intendere 'rose', cioè belle e rigogliose promesse (giovani, sani e valorosi), che nel deserto finiscono inevitabilmente per soccombere. L'impresa sciagurata delle conquiste africane del fascismo è solo la base del racconto; c'è costruita sopra una storia fatta di tante facce, tanti caratteri, tante emozioni ed un'unica sensazione di presa in giro; Monicelli in Libia ci andò davvero (come il conterraneo Tobino del resto, autore del romanzo da cui è tratto il film) e pare sensato credere che questo film sia dedicato appunto alle 'rose' abbandonate nel deserto, ovverosia le vite, le speranze dei commilitoni, degli amici, dei compagni di sventura che, purtroppo, dalla Libia non tornarono come i due viareggini. Impossibile non sentirsi toccati dai tanti momenti commoventi, fino allo straziante (il matrimonio per procura del soldato sepolto o l'abbandono del maggiore che vive per la propria moglie in patria, quando la viene a sapere morta). Mettere in scena una commedia all'italiana (perchè è questo lo spirito de Le rose del deserto) nel 2006 è impossibile per un solo, semplicissimo motivo: ne mancano i protagonisti. E questo, sia chiaro, nonostante qui il cast veda impegnata una serie di ottimi attori (bravissimo Placido): ma non ci sono più i Sordi o i Tognazzi o i Gassman che possono reggere l'intera storia da soli. Questo è un film di una poetica lievissima, profumata di nostalgia ed intensa come ben pochi registi italiani sanno ancora fare nel 2006: qualcuno vuole mettere in discussione le capacità del novantunenne Monicelli?
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
L'articolo è stato aggiunto al carrello
L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
Siamo spiacenti si è verificato un errore imprevisto, la preghiamo di riprovare.
Verrai avvisato via email sulle novità di Nome Autore