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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2017
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Belissimo libro. molto triste, pero ti aiuta a capire la realtá e la paura di trovarsi da solo nell mondo (due ragazzi) . una realtá che come ha detto l´autore si fa fatica a capire, sopratutto per me che sono latinoamericana, e siamo molto lontani... molto consigliati, sopratutto per i giovanni e/o bambini di certa etá, perche puó essere un po forte per i piccoli. pero credo fa un lavoro di sensibilizzazione fantastico.
Libro in grado di smuovere le coscienze. La storia vista dagli occhi di un bambino di 8 anni afgano costretto a crescere velocemente in un durissimo viaggio verso l’Italia che durerà 5 anni. Un racconto di coraggio, speranza e grandissima forza che narra un punto di vista difficile da immaginare per chi non ha vissuto situazioni simili. Un libro attualissimo che fa riflettere sul tema dell’immigrazione e su quanto, in fin dei conti, tutti, nelle nostre differenze, aspiriamo alle stesse cose. Libro scorrevole, coinvolgente, sconvolgente e commovente, dopo la meta è impossibile staccarsi dalla lettura. Consigliatissimo.
A volte ci sono libri che insegnano a far salire gli occhi fino alle stelle, a non mollare nonostante le difficoltà contingenti, a non rassegnarsi quando il mare sottrae e poi restituisce, perché ciò che rinfacciano le onde è l’indifferenza dell’uomo. Il romanzo “Stanotte guardiamo le stelle”, edito con Feltrinelli, di Alì Ehsani, nato a Kabul e poi fuggito dall’Afghanistan insieme al fratello in cerca di un futuro migliore in Europa e Francesco Casolo, docente di Storia del cinema presso l’Istituto Europeo di Design e autore, va molto oltre. Spiega che poiché siamo liberi come gli uccelli, allora bisogna volare lontano, perché se non si può tirare un calcio al male che ci tiene a guinzaglio, tuttavia sognare una boccata d’aria fresca equivale ad osare, a non rimanere aggrappati sotto tentando l’impossibile. Alì, il protagonista, è solo un bambino che all’improvviso non ha più una casa colpita da un razzo e ridotta a un mucchio informe di macerie né i suoi genitori, morti sotto il bombardamento. L’unico che gli resta è Mohammed, il fratello maggiore che gli promette che saranno felici da un’altra parte perché dove c’è la guerra, non si può restare. Inizia così una serie di avventure troppo grandi per un bambino così piccolo. Il lettore viene trasportato in una dimensione che fa battere forte il cuore: il viaggio, la paura di essere scoperti, il dolore cristallizzato in piccoli continui fotogrammi, il coraggio di procedere senza dire una parola, di sentirsi inadeguati e il tentativo di dimenticare il terrore di essere scoperti. Di tanto in tanto affiora il ricordo della vita vissuta a Kabul, dei genitori e della loro protezione e Mohammed è fratello, padre e madre insieme, è la via maestra di un riscatto che deve arrivare. “Aveva un odore da papà quanto mamma ne aveva uno da mamma.” È il tempo degli affetti, quelli veri che non conosce sosta e resiste all’assenza. E diventa presenza. L’amore assomiglia a un palco illuminato da un ampio fascio di luce: basta camminarci sopra di tanto in tanto a passi felpati perché non sparisca e, anzi, attragga come una calamita. Le varie tappe di un viaggio durato cinque anni mettono in luce le difficoltà che vivono ogni giorno i migranti in cerca di una nuova terra e una nuova identità. “Dobbiamo capire come si fa, abbiamo bisogno di informazioni, ci conviene stare con altri perché qui, ancora più che in Afghanistan, siamo pura merce nelle mani del contrabbando.” Spesso la strada si fa stretta e i piedi affondano nelle impronte di chi li ha preceduti, camminare significa avvicinarsi alla meta, a un posto in cui forse sentirsi a casa e avere più fiato. La vita non è certo quella in cui bisogna passare un pezzo di stoffa bagnata sulle tempie e poi sui polsi, sotto il mento e sul collo per sentire un po’ di sollievo e non è neppure l’urlo che, spesso, affonda nel silenzio degli abissi inascoltato. “Ridi. Ti ho detto che siamo come uccelli e che gli uccelli volano liberi”. La vita è non chiudere gli occhi, è salire a bordo di un orizzonte d’accoglienza. Rifugge sicuramente dalla brutalità dei campi di prigionia dove risuona un’unica voce: “qui non esiste dio, qui dentro facciamo parlare anche un asino, non esiste dio”. Oltre i filtri d’acqua melmosa, oltre i muretti su cui la testa scoppia sotto il sole, oltre le manette e i rivoli di sangue, oltre gli pneumatici cui legano qualcuno mani e piedi come crocifisso, oltre le facce sfinite schiacciata contro la parete per non soffocare, c’è un’umanità che ha bisogno di certezze, non solo promesse. È il concetto di prossimità che dovrebbe parlare tutte le lingue, imboccando corridoi di vicinanza. Adesso! Non più in là. Non possiamo più sbagliare! Consiglio vivamente la lettura di queste pagine sapendo che da qualche parte c’è sempre qualcuno che ha bisogno di noi.
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