Un professore universitario vedovo e fresco di pensione che intreccia la sua voce (e la sua vita) con un gruppo di richiedenti asilo provenienti da diversi paesi africani. Il ritmo è inizialmente lento ma lo svolgimento è solenne e magnetico, costruendosi come un motivo musicale con sottili e sempre più serrate variazioni, fino all'inattesa dissonanza dell'ultima pagina. Da leggere e rileggere.
Voci del verbo andare
Vincitore del Premio Strega Europeo 2017
Richard è un filologo classico in pensione, quasi per caso entra in contatto con un gruppo di africani alloggiati in un campo profughi di Berlino. È un uomo solo, vedovo e senza figli, e ha molto tempo a disposizione; in quel luogo si scoprirà capace di ascoltare le vite degli altri, le peripezie e le vicissitudini di chi viene dal Ghana, dal Ciad, dalla Nigeria, storie di lutto, fame, guerra, coraggio e difficoltà. Nel dialogo con gli esuli Richard scorge un'umanità a tratti capace di essere innocente e integra. La sua cultura classica funge da elemento rivelatore, lo aiuta a immergersi in un mondo e in una diversa visione del mondo, a confrontare valori a volte contrapposti. L'antichità e la modernità, l'universalismo e l'interesse individuale, il difficile bilanciamento tra gli ideali e la sopravvivenza. Gli uomini a cui pone le sue domande sono riusciti ad arrivare a Berlino nell'autunno del 2013, dopo essere sbarcati a Lampedusa. Sono quattrocento stranieri in terra straniera, e tutto per loro è diverso, difficile, alieno. Prima si accampano in una piazza del quartiere Kreuzberg per chiedere aiuto e lavoro, ma la polizia li sgombera e li ricovera nella zona orientale della capitale. Vitto e alloggio, una prima conquista, e poi un corso per apprendere la nuova lingua. Ma per loro, come per quasi tutti quelli che sono scappati dai paesi di origine per approdare in Europa in cerca di un rifugio e di una casa, la normalità è una conquista difficile.
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Anno edizione:2016
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AntoN 12 gennaio 2025Un crescendo lento e solenne
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Libro vincitore del premio Strega europeo 2017: potrebbe essere sufficiente questo riconoscimento per comprendere che si tratta di un’opera che non è passata inosservata. Già dal titolo, "Voci del verbo andare", si riesce ad intuire il fil rouge attorno al quale si costruisce la narrazione dell'autrice Jenny Erpenbeck. Le voci sono quelle dei migranti africani, dei profughi sbarcati prima sulle coste italiane di Lampedusa e poi finiti a Berlino in attesa di ricevere un permesso di soggiorno per potere lavorare e costruirsi così un futuro dignitoso
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Come Richard, professore emerito di filologia classica, ormai in pensione, queste pagine si rivolgono a quanti non solo si trovano a far i conti con il proprio passato ma che intendono invece abitare il tempo, ogni scansione del tempo: infatti, terminato il tempo in cui si è “occupati”, il tempo rischia di essere riempito (per il protagonista di scartoffie e di ricordi che non placano la nostalgia della moglie da poco scomparsa), soffocato. La vena creativa dello studioso protagonista prende il lettore per mano e lo conduce ad interessarsi delle vicende degli immigrati, in fuga dalle loro terre, in cerca di una dimora; non sarà difficile anche per il lettore riconoscere, come per il protagonista, l’ignoranza che abita – e spesso se ne impossessa – il civile europeo rispetto alla vita di queste persone: sarebbe interessante che anche il lettore di queste pagine possa, a poco a poco, vincendo timori personali e resistenze del senso comune (non sempre è buono!), incontrare, ascoltare, domandare a questi uomini, con parole ben differenti dai meccanismi contorti e inafferrabili della burocrazia, e con delle scelte non compiutamente risolutive poter almeno offrire una relazione pienamente umana a coloro che desiderano essere riconosciuti nella loro umanità e che, se dalla loro terra è stata mortificata, ora chiede di essere semplicemente vivificata.
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