Di luce e polvere
Da una delle voci più alte e originali della letteratura tedesca contemporanea, una dichiarazione d'amore alla magia del cinema e un poetico atto di resistenza al suo tramonto.
«Tanti anni fa, ero seduta su una panchina in riva a un fiordo in Norvegia, su al nord. Il paesaggio era angoscioso: montagne irte di crepacci, acqua scura, a tratti increspata da una raffica di vento. Un affondo di primavera aveva fatto sciogliere la neve con un sole pallido. Nella luce insperata del pomeriggio domenicale parecchie persone erano venute a piedi dalla vicina città universitaria. Passavano sul sentiero dietro la panchina, i resti di neve che scricchiolavano sotto le suole, chiacchieravano in tono sommesso, alcune con risa smorzate, il corteo a passeggio aveva qualcosa di solenne, e presto mi immaginai di dare la schiena a un film di Carl Theodor Dreyer, senza voltarmi.»
«La tedesca Esther Kinsky narra in un libro (metà fiction, metà memoir) il suo tentativo di aprire un cinema in un villaggio sperduto nel Paese di Orbán: "Una forma di resistenza"» - La Lettura
«Mozi» recita l’insegna di un edificio abbandonato in un paesino dell’Ungheria. Significa «cinema» e cattura lo sguardo della narratrice di questa storia. Straniera in viaggio nella vasta piana ungherese, che appare come una terra incantata di orizzonti infiniti e nostalgia, non resiste all’impulso di comprare il cinema in disuso che è stato un tempo il centro vitale del villaggio. E ricostruendo la storia romantica e leggendaria dell’uomo che lo aprì nel dopoguerra, lo rimette in funzione con l’aiuto di personaggi degni dell’impresa donchisciottesca, come Józsi, l’ex proiezionista ora meccanico di biciclette, e la moglie Ljuba, che di lui si innamorò quando un fulmine interruppe la proiezione del suo film preferito. Così il dimenticato Mozi riprende vita, con un accurato programma d’autore per un pubblico pressoché inesistente, con le foto incorniciate delle stelle del passato e il glorioso diploma vinto a un concorso socialista del 1975, con le pellicole recuperate per i suoi imponenti proiettori novecenteschi e il loro prodigioso fascio di luce. Esther Kinsky intreccia una storia tra realtà e fiaba, ricca di richiami ai grandi maestri del cinema, a un’accorata riflessione su quello che il cinema come luogo fisico è stato per meno di un secolo: una finestra magica che ampliava lo sguardo e accendeva sogni, uno spazio protetto dal mondo che offriva un’esperienza comunitaria condivisa, oggi sostituita dalla privatizzazione delle esperienze. E il suo racconto diventa un atto di resistenza poetica al tramonto del «grande tempio delle immagini in movimento».
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Anno edizione:2025
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