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Anno edizione: 2023
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Erano anni in cui non serviva essere affetti da malattie mentali per finire in un ospedale psichiatrico. Mario Tobino, psichiatra e scrittore, prendendo spunto dalla sua esperienza di medico, scrisse “Le libere donne di Magliano” per far conoscere la vita manicomiale con l’intenzione di “richiamare l’attenzione dei sani su coloro che erano stati colpiti dalla follia”. “La mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, son ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare”. Il manicomio era il suo mondo, il suo rifugio, il luogo da dove partiva e dove tornava. Il manicomio era la casa che non aveva. Le creature che lo abitavano erano la famiglia che gli mancava. Il manicomio era la cura alle sue solitudini. Studiava la follia, amava le sue matte. E le sue matte lo amavano. Poche righe e la finzione narrativa si trasforma in realtà palpabile, densa, spesso disturbante. Una miscela sacrale e perversa, brutale e misericordiosa. Ci sono orrore e pietas per quelle povere anime condannate e abbandonate dalla società. Anime disperate che si stringono alla vita con la stessa forza con cui si attaccano alla morte. È un girone spaventoso dove urla e silenzi appartengono allo stesso dolore. Nel regno della follia le “libere donne” vivono in condizioni atroci. Attorno a loro si muovono, ombre sempre presenti, suore e infermiere. Sotto la penna di Tobino si srotolano drammi indicibili. Feriscono e scuotono nel profondo. Impossibile rimanere indifferenti. Impossibile dimenticare dopo che l’ultima pagina ha segnato la parola “fine”. “Ogni creatura umana ha la sua legge; se non la sappiamo distinguere chiniamo il capo invece di alzarlo nella superbia; è stolto crederci superiori perché una persona si muove percossa da leggi a noi ignote”. Tobino, che considerava i matti creature degne d’amore, cercò di attirare l’attenzione di chi era oltre le mura, oltre i cancelli, perché i malati fossero considerati esseri umani, ricevessero trattamenti migliori, miglior nutrimento e vestiti decenti, si avesse cura della loro vita spirituale e della loro libertà. Era il 1953. Basaglia era ancora lontano.
Tobino ci lascia un bellissimo e toccante diario dove lui, medico, oltre che grande scrittore, raffigura ritratti spesso dolci ed indimenticabili di donne malate, sue pazienti, rinchiuse per la maggior parte nel manicomio di Maggiano, qui Magliano. Allora non esistevano psicofarmaci e le terapie erano piuttosto spartane. In questi suoi appunti Tobino mette in evidenza non solo i loro lati più cupi e nascosti , le loro reazioni spesso smodate ma tratteggia soprattutto il loro animo libero, senza le pastoie della società e del conformismo e ci induce a riflettere su che cosa vuol dire normalità e libertà.
“Scrissi questo libro per dimostrare che anche i matti sono creature degne d’amore, il mio scopo fu di ottenere che i malati fossero trattati meglio, meglio nutriti, meglio vestiti, si avesse maggiore sollecitudine per la loro vita spirituale… Tentai di richiamare l’attenzione dei sani su coloro che erano stati colpiti dalla follia.” Un libro molto bello che fa riflettere al concetto di follia (“la pazzia è davvero una malattia? Non è una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo?) e sui “manicomi” come luogo di cura e/o reclusione.
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