Le prime frasiSe bisogna soffrire, è meglio soffrire nell'interesse del Paese...JAWAHARLAL NEHRU, in un discorso agli abitanti dei villaggi evacuati per la costruzione della diga di Hirakud, 1948
In piedi su una collina, mi stavo facendo una bella risata.
Avevo attraversato la Narmada in barca da Jalsindhi e, sulla sponda opposta, mi ero arrampicata sul promontorio da dove potevo vedere, disposti sulla corona di basse colline brulle, i villaggi
adivasi di Sikka, Surung, Neemgavan e Domkhedi. Distinguevo le abitazioni fragili, i campi e, dietro, le foreste. E bambini minuscoli con caprette ancor più piccole che correvano su e giù nel paesaggio come noccioline motorizzate. Sapevo che quella che stavo contemplando era una civiltà più antica dell'induismo, e che c'era la proposta, già approvata (dalla più alta corte del Paese), di sommergerla all'arrivo del monsone, quando le acque del bacino del Sardar Sarovar sarebbero salite fino a coprirla tutta.
Cos'avevo da ridere, allora?
D'improvviso mi era tornata in mente la tenera sollecitudine con la quale i giudici della Corte Suprema di Delhi (prima di annullare la sospensione legale dei lavori per la costruzione della diga del Sardar Sarovar) si erano accertati se nei nuovi insediamenti i bambini adivasi avrebbero avuto parchi giochi a loro disposizione. I legali che rappresentavano il Governo si erano affrettati a rassicurarli che certo, li avrebbero avuti, e con tanto di altalene, scivoli e dondoli. Sollevai gli occhi al cielo immenso e poi li abbassai sul fiume che scorreva sotto, e per un breve, brevissimo istante l'assurdità di tutto ciò invertì il senso della mia rabbia, facendomi ridere. Ma la mia non era una risata irriverente.
Tengo a precisare fin dall'inizio che non sono una che odia la città. Sono cresciuta in un villaggio e ho sperimentato sulla mia pelle l'isolamento, l'iniquità e la potenziale barbarie di questa vita. Non sono una fanatica antiprogresso, e nemmeno cerco di far proseliti a favore del mantenimento perenne di costumi e tradizioni. Ma sono molto curiosa. E la mia curiosità si è ridestata a proposito della valle della Narmada. L'istinto mi diceva che qui c'era qualcosa di grosso. Qui il fronte del combattimento era nettamente delineato, gli eserciti in armi schierati su tutta la linea. Qui si riusciva a guardare la gelida palude di speranza, rabbia, informazione e disinformazione, trucchi della politica, ambizioni degli ingegneri, socialismo disincantato, attivismo radicale, sotterfugi burocratici, l'emozionalismo disinformato e, ovvio, dell'invadente e sempre ambigua politica degli aiuti internazionali.
L'istinto mi indusse a mettere da parte Joyce e Nabokov e a rimandare la lettura del librone di Don De Lillo per dedicarmi a rapporti di bonifica e irrigazione, diari, libri e documentari sulle dighe, sul perché vengono costruite e sui loro scopi.
I miei primi sondaggi rivelarono che pochi sanno ciò che sta accadendo veramente nella valle della Narmada. Chi sa, sa molte cose. I più non ne sanno proprio niente. Eppure ognuno ha la sua appassionata opinione. Nessuno è neutrale. Ben presto mi resi conto che mi muovevo su un terreno minato.
Da dieci anni a questa parte, la battaglia contro la diga del Sardar Sarovar è diventata in India molto più della lotta per salvare un fiume. E questo ha rappresentato la sua forza e insieme la sua debolezza. Qualche anno fa diede vita a un dibattito che riuscì a catturare l'immaginazione della gente, e quindi ad alzare la posta in gioco e a trasformare il carattere della lotta: partita come semplice battaglia per decidere il destino di una vallata, cominciò a far sorgere una serie di dubbi sull'intero sistema politico. La questione, adesso, riguarda la natura stessa della democrazia. Chi è il proprietario di questa terra? E dei suoi fiumi, delle sue foreste, dei suoi pesci? Domande enormi, che lo Stato ha affrontato con enorme serietà. La risposta è arrivata univoca da tutte le istituzioni ai vertici dello Stato: l'esercito, la polizia, l'apparato burocratico, i tribunali. E non una risposta qualsiasi, ma una risposta amara, brutale e inequivocabile.